REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 6777 del 2019, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Raffaele Pendibene, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia.
contro
Il Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore; la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore; la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali, in persona del Presidente pro tempore, tutti non costituiti in giudizio.
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sezione Seconda, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’impugnazione del diniego del riconoscimento del beneficio di cui all'art. 5 della legge n. 96 del 1955.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 settembre 2020 il consigliere Daniela Di Carlo e udito l’avvocato Raffaele Pendibene;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

Motivazione

1. La ricorrente, in qualità di erede di madre perseguitata per motivi di razza durante il regime fascista, ha presentato in data 18 aprile 2013 la domanda per ottenere i benefici previsti dall’art. 5 della legge n. 96 del 1955, come modificato dall’art. 2 della legge n. 932 del 1980, sulla posizione della madre.

Più in particolare, l’istante ha chiesto che alla madre venisse riconosciuta la contribuzione figurativa a carico dello Stato italiano per il periodo non coperto dal versamento dei contributi volontari, per potere così beneficiare dell’intero trattamento pensionistico spettante.

La richiedente ha specificato che il mancato versamento dei contributi volontari da parte della madre è dipeso dal fatto che la stessa era stata impedita nello svolgimento della propria attività lavorativa, perché vittima di persecuzione razziale (la madre era di razza ebrea e aveva un piccolo banco di fiori ambulante, la cui attività è poi cessata).

2. Con il provvedimento impugnato, la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali istituita presso la Presidenza del Consiglio ha denegato il beneficio, poiché:

a) la chiusura dell’attività commerciale di fioraia gestita dalla madre della ricorrente non sarebbe ascrivibile a provvedimenti delle autorità fasciste, ma sarebbe connessa alla partenza del coniuge di religione non ebraica per la guerra e sarebbe dipesa, in definitiva, da una ‘scelta volontaria’ della donna;

b) l’essersi rifugiata, la madre, dopo l’8 settembre 1943, presso parenti cattolici del marito non integrerebbe “gli estremi dell’atto persecutorio perché la medesima venne ospitata nell’ambito del nucleo familiare legato da vincoli di affinità e non di estranei”;

c) al momento degli eventi narrati, una delle testimoni, nata nel 1940, aveva un’età tale da non poterne avere piena consapevolezza e conoscenza e, peraltro, “dalla documentazione acquisita agli atti risulta che la suddetta testimone nel periodo 1943/1944 non poteva essere presente ai fatti perché era rifugiata con la madre a Roiate, vicino ad Olevano Romano dove era stata accompagnata dall'altra attestante”;

3. Con il ricorso di primo grado, proposto dinanzi al Tar del Lazio, Sede di Roma, l’interessata ha lamentato la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, in quanto la deliberazione impugnata non sarebbe stata preceduta dal preavviso di diniego, nonché dell’art. 5 della legge n. 96/1955 e dell’art. 6 della legge n. 261/1967, la sussistenza di profili di l’eccesso di potere per difetto di motivazione e per travisamento dei fatti.

Dopo aver richiamato la giurisprudenza amministrativa e contabile (pronunciatasi sul concetto di violenza morale e di violazione di diritti costituzionalmente garantiti, sul regime probatorio e sulla valutazione del relativo materiale nell’ambito dei procedimenti di riconoscimento delle provvidenze previste dalla richiamate leggi speciali, nonché sulla necessità di un’interpretazione estensiva della sussistenza dei presupposti normativamente previsti), la ricorrente ha evidenziato che, a differenza di quanto affermato dalla Commissione:

a) la chiusura dell’attività di fioraia con banco in Roma, in piazza Santiago del Cile, gestita dalla madre, non è stata frutto di una ‘scelta volontaria’, ma è dipesa dal fatto di essere rimasta sola e di non aver potuto esercitare alcun lavoro in forza dei provvedimenti discriminatori emanati nei confronti degli ebrei;

b) l’aver trovato rifugio dopo l’8 settembre 1943 presso parenti cattolici del padre in via Canada e poi presso l’asilo cattolico Pie Maestre Operaie non elimina la rilevanza dell’essere stata perseguitata e l’aver subito la violazione di diritti fondamentali, essendo irrilevante il grado di parentela o affinità ovvero l’estraneità dei soggetti presso i quali la madre della ricorrente e lei stessa hanno trovato alloggio;

c) la giovane età di una delle attestanti non è dirimente ai fini dell’esclusione del beneficio, in primo luogo perché la memoria dei fatti subiti può bene essere evocata e mantenuta viva dai racconti dei parenti e di coloro che li hanno vissuti unitamente alla persona stessa, e in secondo luogo poiché vi è l’altra specifica testimonianza;

d) sussisterebbero i dedotti profili di eccesso di potere e illogicità, sia perché per i medesimi fatti alla madre della ricorrente è stata riconosciuta la qualifica di perseguitata razziale con deliberazione n. 93925 del 19 febbraio 2016, sia perché la deliberazione impugnata ha escluso immotivatamente la sussistenza di atti persecutori, malgrado l’avvenuta cessazione dell’attività lavorativa e la necessità oggettiva di fuggire e di nascondersi.

4. Il Tar del Lazio, Sede di Roma, con la sentenza impugnata di cui in epigrafe, ha respinto il ricorso, non ravvisando la sussistenza dei presupposti per potere accedere alla provvidenza economica richiesta, e ha compensato tra le parti le spese di lite.

5. L’interessata ha impugnato la sentenza, deducendo le seguenti censure.

5.1. Violazione, falsa ed erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 5 L. 96/55 e art. 1 L. 96/55. Motivazione apparente.

La sentenza impugnata non avrebbe dato corretta applicazione agli articoli 1 e 5 della legge n. 96 del 1955 e all’art. 6 della legge n. 261 del 1967, perché ha incongruamente escluso l’esistenza di un fatto storico (e cioè la commissione di un fatto persecutorio nei confronti della madre della ricorrente, con la perdita della sua attività lavorativa), quando invece risulta in atti la prova della sua sussistenza (il fatto persecutorio è descritto nell’atto notorio allegato alla domanda presentata alla Commissione per le provvidenze) e il TAR non ha messo in dubbio il valore probatorio dell’atto stesso.

5.2. Violazione, falsa ed erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 5 L. 96/55 e art. 1 L. 96/55.

La sentenza impugnata errerebbe pure nel considerare ragionevole la determinazione della Commissione per le provvidenze, secondo cui non si sarebbero verificate alcuna violenza morale o persecuzione, per il fatto che la ricorrente e sua madre si sono rifugiate in Roma preso parenti del coniuge e poi presso un asilo cattolico.

6. Le Amministrazioni statali appellate non si sono costituite nel presente grado di giudizio.

7. All’udienza pubblica del 17 settembre 2020 la causa è stata discussa dal difensore della parte appellante ed è stata trattenuta dalla Sezione per la decisione. La causa è stata decisa dalla Sezione, anche all’esito della riconvocazione delle camere di consiglio nelle giornate del 30 settembre e del 16 dicembre 2020.

8. L’appello è fondato e va, pertanto, accolto.

9. In primo luogo, vanno sintetizzati i fatti che hanno preceduto l’emanazione del provvedimento impugnato.

9.1. Le vicende che hanno caratterizzato la vita personale della madre della ricorrente sono state diffusamente illustrate negli atti processuali e nei documenti versati agli atti del giudizio.

Più in particolare, l’atto notorio depositato a corredo dell’atto introduttivo del giudizio è del seguente tenore: “E’ notorio, di fatto ed a nostra personale conoscenza …che -OMISSIS-”.

9.2. La Commissione per le provvidenze ha dubitato dell’idoneità probatoria dell’atto in questione, motivando che “al momento degli eventi narrati, una delle testimoni, nata nel 1940, aveva un’età tale da non poterne avere piena consapevolezza e conoscenza” e peraltro “dalla documentazione acquisita agli atti risulta che la suddetta testimone nel periodo 1943/1944 non poteva essere presente ai fatti perché era rifugiata con la madre a Roiate, vicino ad Olevano Romano dove era stata accompagnata dall'altra attestante”.

9.3. La ricorrente ha impugnato la legittimità dell’atto impugnato - tra gli altri motivi - anche per l’aspetto concernente l’idoneità probatoria dell’atto notorio allegato a corredo della domanda, sostenendo che la giovane età di una delle attestanti non è dirimente ai fini dell’esclusione del beneficio, perché la memoria dei fatti subiti può bene essere evocata e mantenuta viva dai racconti dei parenti e di coloro che li hanno vissuti unitamente alla persona stessa; in ogni caso, vi è l’altra specifica testimonianza, non contestata dalla Commissione per le provvidenze sotto l’aspetto della credibilità e dell’attendibilità del testimone.

9.4. Il giudice di primo grado, malgrado abbia respinto il ricorso, ha sostanzialmente accolto, però, il motivo di ricorso incentrato sulla idoneità probatorio dell’atto notorio, reputandola - invece – pienamente ammissibile.

In altri termini, il rigetto del ricorso non è dipeso dalla mancata dimostrazione dei fatti allegati dalla parte ricorrente, bensì dalla lettura dei fatti medesimi, ritenuti – ad avviso del primo giudice – correttamente interpretati dalla Commissione per le provvidenze, nel senso che non si fosse verificato alcun fatto di persecuzione ai danni della madre della ricorrente, motivato da ragioni di odio razziale.

9.5. Questo autonomo capo di sentenza non è stato impugnato dalle Amministrazioni erariali, sicché la statuizione in esso contenuta deve ritenersi passata in cosa giudicata.

9.6. Ad ogni buon conto, ai fini della prova dei fatti allegati, la Sezione fa rilevare che, anche lasciando in disparte la testimonianza resa dalla signora -OMISSIS-, nata negli anni Quaranta del secolo scorso e dunque in un tempo coevo rispetto alle vicende personali che hanno caratterizzato la vita della madre della ricorrente, resta il fatto – insuperabile e coperto dal giudicato – che è pienamente ammissibile la testimonianza resa dall’altra testimone, e cioè la signora -OMISSIS-, che è nata nel 1925, e dunque in un tempo compatibile con l’esatto ricordo dei fatti.

9.7. La Sezione ritiene che tale testimonianza, come sopra testualmente riportata, sia del tutto credibile e attendibile e che, sulla sua base, sia stato adeguatamente provato il fatto costitutivo dell’illecita commissione dell’atto persecutorio ad opera dell’apparato amministrativo fascista nei confronti della madre della ricorrente, motivato da ragioni di odio razziale.

9.8. A questo proposito, la Sezione reputa necessario:

a) ricostruire il quadro normativo all’interno del quale si colloca la provvidenza economica richiesta dalla ricorrente;

b) definire le nozioni giuridiche di ‘atto persecutorio’, di ‘atti di violenza’ e di ‘sevizie’, onde potere stabilire se il caso all’esame si ascrive (o meno) sotto l’astratta fattispecie normativa.

10. In relazione al primo aspetto, la Sezione rileva che la legge 10 marzo 1955, n. 96 (in Gazz. Uff., 26 marzo, n. 70), reca la disciplina delle “Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti”.

Tra le prestazioni considerate, è previsto il riconoscimento dei contributi figurativi ai sensi dell’art. 5, come sostituito dall'articolo 2 della legge 22 dicembre 1980, n. 932.

Nella versione oggi vigente, ratione temporis applicabile anche alla presente controversia (l’istanza è stata protocollata nel 2013), il citato art. 5 prevede che, “Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto persecutorio subito nelle circostanze di cui all'articolo 1 della presente legge e fino al 25 aprile 1945, dai cittadini italiani che possano far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta, o periodi di lavoro assoggettabili a contribuzione dell'assicurazione stessa, ai sensi delle vigenti norme di legge.

È a carico dello Stato l'importo dei contributi figurativi da accreditare a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali, per i periodi riconosciuti utili a pensione nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti e nelle forme di previdenza sostitutive, esonerative ed esclusive della medesima dalla commissione di cui all'articolo 8.

Per la ricostruzione delle pensioni si seguono le procedure previste dalla legge 15 febbraio 1974, n. 36”.

Da tali disposizioni, si evince che i presupposti per potere richiedere il beneficio in parola sono:

a) l’essere cittadino italiano;

b) il vantare una posizione nell’assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti ovvero nelle forme di previdenza sostitutive, esonerative ed esclusive della medesima;

c) l’avere subito un atto persecutorio nelle circostanze di cui all'art. 1 della medesima legge e fino al 25 aprile 1945.

Nel caso all’esame, l’oggetto della materia del contendere riguarda la valutazione della Commissione delle provvidenze, secondo cui mancherebbe il requisito di cui alla lettera c), in quanto la madre della ricorrente non sarebbe stata destinataria di un atto persecutorio nelle circostanze previste dall'art. 1 della medesima legge e fino al 25 aprile 1945.

L’art. 1 cit. prevede che “Ai cittadini italiani, i quali siano stati perseguitati, a seguito dell'attività politica da loro svolta contro il fascismo anteriormente al 25 aprile 1945, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento, verrà concesso, a carico del bilancio dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648, compresi i relativi assegni accessori per il raggruppamento gradi: ufficiali inferiori (1)”.

Tale disposizione enuclea le fattispecie di atti persecutori che costituiscono titolo per il riconoscimento della provvidenza economica in questione: tra esse figurano (alla lettera c) gli “atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista;”.

11. Occorre ora affrontare, quindi, il secondo dei menzionati aspetti, e cioè quello concernente la definizione delle nozioni giuridiche di ‘atto persecutorio’, di ‘atti di violenza’ e di ‘sevizie’, onde potere stabilire, come già detto, se sia possibile sussumere (o meno) il caso all’esame sotto la menzionata fattispecie normativa di cui alla lettera c).

A questo proposito, la Sezione fa osservare che il giudice di primo grado ha richiamato, come premessa al suo ragionamento, l’orientamento della giurisprudenza contabile formatosi in tema di provvidenze riconosciute dallo Stato italiano dopo la caduta del regime fascista, senza tuttavia trarne - ad avviso della Sezione – la corretta conclusione logico giuridica.

Più in particolare, la Sezione condivide l’impostazione sistematica generale che è alla base del risalente (e mai superato) pronunciamento giurisdizionale rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti n. 9/QM/1998.

Secondo questa pronuncia, gli «atti di violenza» cui fa riferimento l’art. 1 lettera c) (specificamente richiamato dall’art. 5, applicabile al caso all’esame) “devono, dunque, essere identificati in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto alla persona, in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti. Accanto alla violenza fisica, dunque, quale presupposto e fondamento degli assegni di cui trattasi, si affianca la violenza cosiddetta morale, ogniqualvolta essa si estrinsechi e si concreti in azioni lesive del diritto alla persona. Rafforza l’accennato coinvolgimento anche la lettera della norma che, nell’uso del plurale («atti di violenza»), non vuole, evidentemente, subordinare la concessione degli assegni di benemerenza al reiterarsi della violenza … ma vuole rapportare le provvidenze in parola ad una più vasta tipologia di azioni violente, tipologia che spazia, appunto, dalla violenza fisica a quella cosiddetta morale ... la lesione del diritto della persona non è sufficiente per far sorgere, in capo al soggetto leso, il diritto ad uno degli assegni di cui trattasi. Occorre, innanzitutto, che gli atti di violenza muovano da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso, con l’avvertenza che la motivazione razziale può presumersi ove la violenza – con le connotazioni precisate e nel concorso delle altre condizioni di legge - abbia colpito un soggetto appartenente alla comunità discriminata”.

La Sezione condivide il principio di diritto enunciato, perché:

a) sul piano sistematico, occorre tenere conto della ratio legis delle disposizioni richiamate, e cioè quella di apprestare misure riparatorie e indennitarie in favore dei soggetti che, in vario modo e a vario titolo, hanno subito pregiudizi dalle leggi e dai provvedimenti emanati durante il regime fascista e nel corso delle vicende belliche;

b) sul piano semantico, i concetti giuridici di ‘violenza’, ‘sevizia’ e ‘atto persecutorio’ debbono essere ricostruiti sulla base della specifica norma di settore considerata.

Come già anticipato, le fattispecie normative che danno titolo – tra gli altri presupposti - al riconoscimento del beneficio, sono quelle tipiche descritte nelle lettere da a) ad e) dell'art. 1, legge n. 96/1955, richiamato dal successivo art. 5.

Da un punto di vista metodologico, ad avviso della Sezione, non occorre fare riferimento, se non nei limiti della stretta compatibilità, al concetto di ‘violenza’ rilevante per le altre branche del diritto in cui si articola l'ordinamento (ad es., il diritto civile o il diritto penale), perché la diversità delle finalità giuridiche perseguite dal legislatore e la specificità dei fatti storici accaduti condiziona e qualifica, sul piano contenutistico, la natura giuridica delle provvidenze erogate dallo Stato.

c) Occorre inoltre considerare che le fattispecie di violenza cui si riferisce la norma sono tutte adeguatamente circostanziate.

Più nel dettaglio, le lettere a), b), d) ed e) elencano una serie di fatti determinati che non abbisognano di particolare specificazione, quali la detenzione in carcere, i ripetuti fermi di polizia, l'assegnazione al confino, etc.

La lettera c) rappresenta, invece, una norma di chiusura e di salvaguardia, perché dà rilievo alle violenze, alle sevizie e alle persecuzioni che, sebbene non si siano tradotte in fatti tipici di detenzione, di fermi di polizia e di confinamenti, si sono comunque tradotte in fatti di coartazione oggettivamente rilevanti e positivamente apprezzabili.

Inoltre, sul piano soggettivo, la disposizione introduce un elemento ‘qualificatorio’ particolarmente rilevante, poiché la violenza o l’intimidazione debbono provenire da persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista.

d) Infine, sul piano teleologico, va preferita una lettura delle norme in senso conforme ai principi e ai valori espressi dalla Costituzione repubblicana.

Ne consegue che la connotazione violenta delle azioni poste in essere dai soggetti individuati dalla norma va ravvisata non soltanto nelle modalità della condotta (che può assumere le più svariate colorazioni, dalla mera coercizione alla brutalità e per finire alla crudeltà), ma anche nella attitudine a ledere i diritti fondamentali e inviolabili della persona.

In altre parole, la violenza non deve necessariamente consistere nell'estrinsecazione della forza fisica o materiale idonea a cagionare pregiudizi fisici (qual è la sevizia, ad esempio), ben potendo consistere in ogni forma di costrizione o di condizionamento, anche morale, ovvero di intimidazione, idonea a impedire o restringere la libera esplicazione della personalità dell’individuo come singolo o all’interno delle formazioni sociali, compreso il libero svolgimento dell’attività lavorativa (v. ancora in argomento le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, sentenza n. 9/QM/1998, secondo cui “l’intento risarcitorio della normativa in esame coinvolge il valore della persona nella sua unitarietà ed in tutte le sue molteplici proiezioni”. Limitare la funzione solidaristica e risarcitoria ai soli fatti lesivi dell'integrità fisica, significherebbe arbitrariamente isolare, nell'ambito del diritto della persona, un solo valore; trascurando tutti gli altri valori — quali la dignità, l'onore, l'identità etc. — che col primo formano un quadro armonico e inscindibile e che danno contenuto e sostanza all'unitario diritto della personalità, di estensione e valenza generali, quale è ormai da tempo configurato dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza (ad es. Cass. Sez. I civ., 20 aprile 1963 n. 990)”.

e) Va considerato, inoltre, che gli atti di violenza muovono da intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso.

f) Infine, è specificamente circoscritto l’orizzonte temporale all’interno dei quale le condotte descritte devono essere state commesse, e cioè “a partire dal primo atto persecutorio subito nelle circostanze di cui all'articolo 1 della presente legge e fino al 25 aprile 1945”.

Nel caso di specie, i fatti di causa rientrano all’interno della cornice temporale in parola, perché essi si sono pacificamente svolti tra il 1942 e il 1944, mentre è in contestazione soltanto la loro qualificazione, e cioè se gli stessi integrino (o meno) la condotta della persecuzione razziale (cfr. l’atto notorio sopra richiamato, a tenore del quale la madre della ricorrente “-OMISSIS-”.

12. Applicando alla fattispecie all’esame le suesposte coordinate ermeneutiche, la Sezione espone le seguenti ulteriori considerazioni.

In seguito alle leggi antiebraiche promulgate nel periodo tra il 1938 e il 1943, fu inibito agli ebrei lo svolgimento di una serie cospicua di professioni, di mestieri, di lavori e di attività.

Ciò avvenne sia tramite atti aventi forza di legge, sia attraverso circolari ministeriali, ordinanze e provvedimenti in genere dell’Autorità amministrativa.

Il regio decreto legge 29 giugno 1939, n. 1054, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 2 agosto 1939, n. 179, recava – in senso limitativo - la disciplina dell’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica.

La ‘regolamentazione’ dei mestieri si ebbe in massima parte, invece, con le circolari ministeriali (in un sistema gerarchico nel quale non si esitava ad eseguire gli ‘ordini superiori’ e il principio di legalità era inteso in un significato ben diverso da quello che ha poi caratterizzato lo Stato repubblicano).

Per quanto rileva nel giudizio, e con riferimento alla disciplina del commercio in genere e di quello ambulante in particolare, vanno menzionate la circolare del Ministero delle Corporazioni 11 novembre 1938, n. 23774, recante il divieto di rilascio della licenza ordinaria di commercio ai cittadini di razza ebraica (il che fa presumere che per ciò solo non furono rinnovate le licenze, se pure si riconosceva efficacia sino alla loro naturale scadenza); la circolare del Ministero degli Interni 30 luglio 1940, n. 52299, recante analogo divieto; la nota del Ministero degli Interni 25 novembre 1942, che precisava che l'ariano sposato ad un'ebrea e intestatario esclusivo di una licenza potesse conservarla, perché si presumeva che, essendo lui il capofamiglia, la moglie ebrea non si ingerisse nella gestione.

13. Ad avviso della Sezione, l’emanazione delle menzionate circolari e la indubbia soggezione degli organi pubblici, anche comunali, alle stesse, integrano il primo dei presupposti previsti dalla norma ai fini del riconoscimento della provvidenza economica richiesta.

Nel dettaglio:

- l’art. 5, comma 1, cit. prevede che, “Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto persecutorio subito nelle circostanze di cui all'articolo 1 della presente legge e fino al 25 aprile 1945, dai cittadini italiani che possano far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta, o periodi di lavoro assoggettabili a contribuzione dell'assicurazione stessa, ai sensi delle vigenti norme di legge”;

- l’art. 1 cit. prevede che “Ai cittadini italiani, i quali siano stati perseguitati, a seguito dell'attività politica da loro svolta contro il fascismo anteriormente al 25 aprile 1945, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento, verrà concesso, a carico del bilancio dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648, compresi i relativi assegni accessori per il raggruppamento gradi: ufficiali inferiori”;

- la lettera c) dell’art. 1 cit. indica “atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista;”.

Da queste premesse, emerge la fondatezza dell’atto d’appello:

- la madre della ricorrente era cittadina italiana di razza ebrea;

- insieme al proprio coniuge, ella era contitolare di un’attività di commercio ambulante di vendita di fiori;

- lo Stato italiano, attraverso atti amministrativi, ha introdotto il divieto agli ebrei di svolgere attività di commercio ambulante, sia vietando il rilascio di nuove concessioni, sia facendo venire meno o non riconoscendo gli effetti dei titoli già rilasciati (cfr. la circolare del Ministero delle Corporazioni datata 11 novembre 1938, n. 23774, recante il divieto di rilascio della licenza ordinaria di commercio ai cittadini di razza ebraica; la circolare del Ministero degli Interni del 30 luglio 1940, n. 52299, recante analogo divieto);

- il divieto aveva effetto sia per il cittadino ebreo, sia per il cittadino italiano non ebreo coniugato con moglie ebrea, sicché il divieto di esercitare il commercio ‘si estendeva’ anche al coniuge, salvo che questi avesse la titolarità esclusiva dell’attività.

Il Ministero degli Interni, con una nota di data 25 novembre 1942, rilevò infatti che l’unica possibilità di deroga coincideva con la titolarità esclusiva della licenza in capo al cittadino italiano non ebreo, per il ‘principio’ ivi riaffermato della superiorità della razza ariana e del ‘principio’ della soggezione della moglie al marito.

In altre parole, le autorità amministrative dovevano così ritenere che l'ariano sposato ad un'ebrea, che fosse risultato intestatario esclusivo di una licenza, avrebbe potuto conservarla, perché - essendo lui il capofamiglia – si presumeva iuris et de iure che la moglie ebrea non si sarebbe ingerita nella gestione dei suoi affari.

- Nel caso all’esame, la madre dell’appellante era contitolare della licenza (o, perlomeno, così è prospettato dalle parti e così risulta dagli atti di causa e dal provvedimento impugnato in primo grado), per cui, sulla base della suesposta cornice edittale, ella – in quanto di razza ebraica - non poteva svolgere (e non ha svolto) l’attività commerciale in questione, e ciò indipendentemente dalla circostanza dell’avvenuta partenza del marito al fronte ovvero della contestata sua autonoma scelta commerciale.

In altre parole, l’esercizio del commercio, anche quello ambulante, era sempre vietato all’ebreo, mentre l’unica forma di deroga ammessa era stabilita in favore del cittadino italiano ariano titolare esclusivo della licenza.

Questa fattispecie non si è verificata nella specie e non si sarebbe potuta verificare per la madre della appellante, per la semplice evidenza che la stessa era ebrea e che la deroga era comunque posta in favore del solo marito ariano coniugato con moglie ebrea, e non anche il contrario.

Alla madre della ricorrente, in altri termini, indipendentemente dalla contestata volontarietà (o meno) della decisione di continuare o di cessare la vendita di fiori, non avrebbe giovato nemmeno il fatto di essere coniugata con un ariano, poiché la deroga presupponeva la titolarità esclusiva della licenza in capo al marito italiano non ebreo.

Pertanto, nel caso di specie, non ha senso logico, prima ancora che giuridico, affermare (come invece hanno argomentato sia l’Amministrazione con l’atto impugnato, che il giudice di primo grado, che lo ha ritenuto legittimo) che la cessazione dell’attività di vendita dei fiori sia dipesa da una autonoma e libera scelta ‘commerciale’ della donna perché suo marito era partito al fronte.

In questa prospettiva, la partenza del marito al fronte costituisce un elemento ‘neutro’, tutt’al più valutabile in senso favorevole alla madre della richiedente, e non – all’opposto – in senso a lei sfavorevole.

Tale partenza, infatti, può soltanto avere maggiormente acuito la condizione di miseria, di abbandono e di persecuzione sofferta dalla donna, perché ebrea, non più abilitata a svolgere attività di commercio ambulante, ormai inibita da atti di autorità statali; perché rimasta sola, senza mezzi per vivere e con una figlia di circa un anno a proprio integrale carico.

Pertanto – si deve concludere – è fuor di dubbio che la madre della richiedente abbia subito un atto di violenza di natura persecutoria determinato da motivi di odio per l’appartenenza alla razza ebrea, proveniente dall’apparato statale (il divieto è stato pacificamente introdotto con circolare ministeriale) e avente forza cogente, a cui la donna non avrebbe potuto opporsi o sottrarsi in alcun modo, benché meno giuridicamente, atteso che quella era la legge vigente all’epoca e quello era il sistema nel quale non si dubitava che le circolari dovessero trovare applicazione.

Le circolari ministeriali in argomento, che riguardavano i mestieri del commercio, rispecchiavano pienamente la visione del regime fascista ed erano emanate sulla base di considerazioni discriminatorie e basate sull’odio razziale, che avevano costituito la comune ‘base giuridica’ per la promulgazione anche della legislazione antiebraica sulle professioni del commercio.

14. Inoltre, la Sezione ritiene palesemente errate – e ingiustificabili, tenuto conto delle realtà in quegli anni venutesi a verificare - anche le considerazioni con cui la Commissione delle provvidenze ha rilevato che la madre della ricorrente non avrebbe avuto alcun personale pregiudizio, perché ospitata dai parenti cattolici del marito, anziché da terzi estranei.

A parte il fatto che tale ospitalità va considerata come la diretta conseguenza della violenza e della persecuzione subite, che hanno determinato la cessazione dell’attività lavorativa, ad avviso della Sezione è indubitabile che l’essere stata ospitata dai parenti del marito ha costituito per la madre dell’appellante l’unico modo possibile di sostentare se stessa e la figlia appena nata, l’unica via necessitata di salvezza, e non già una libera scelta o una comoda soluzione di vita.

La circostanza che gli ospitanti fossero giuridicamente degli affini evidenzia che la madre dell’appellante, nella complessiva tragedia vissuta personalmente, ha avuto nel nucleo familiare del marito aiuto e copertura, ma non elide in alcun modo l’antigiuridicità degli atti dello Stato, che hanno condotto alla necessità di essere aiutata.

15. In definitiva, per le considerazioni che precedono, l’appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso introduttivo del giudizio e per l’effetto annullato l’atto impugnato.

Nei limiti astretti dal presente giudicato (e cioè quanto al profilo concernente l’accertamento del fatto costitutivo rappresentato dalla subita persecuzione ai sensi del cit. art. 5, legge n. 96/1955 e s.m.i.), restano comunque salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione dovrà emanare, nonché i connessi apprezzamenti circa la sussistenza degli ulteriori presupposti costitutivi previsti dalla normativa di settore sull’istanza presentata dalla richiedente.

16. Le spese di lite del doppio grado sono liquidate come in dispositivo secondo i parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e s.m.i.

PQM

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello n. 6777/2019, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio e di conseguenza annulla l’atto impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Autorità amministrativa.
Condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri a rifondere, in favore della ricorrente, le spese del doppio grado liquidate in complessivi euro 3.500,00 (tremilacinquecento), oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. se dovute come per legge, oltre al contributo unificato del doppio grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell’appellante e delle altre persone fisiche menzionate nella motivazione.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 17 e 30 settembre 2020 e 16 dicembre 2020, ai sensi dell’art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020, con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Luca Lamberti, Consigliere
Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Alessandro Verrico, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Daniela Di Carlo Luigi Maruotti


 

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