REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Chiarini Maria Margherita - Presidente -
Dott. Sestini Danilo - Consigliere -
Dott. Olivieri Stefano - Consigliere -
Dott. Cirillo Francesco Maria - rel. Consigliere -
Dott. De Marchi Albengo P. G. - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15415-2012 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in Roma, via Giovanni Bettolo 4, presso lo studio dell'avvocato Fabrizio Brochiero Magrone, rappresentato e difeso dall'avvocato Giancarlo Migani giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
Banca Carim-Cassa di Risparmio di Rimini S.P.A. in Amministrazione Straordinaria, in persona del Procuratore Speciale Dott. Franceschetto Luciano, elettivamente domiciliata in Roma, via di Villa Pepoli 4, presso lo studio dell'avvocato Alessandro Coluzzi, rappresentata e difesa dall'avvocato Roberto Faini giusta procura speciale a margine del controricorso;
Z.C., B.V., elettivamente domiciliati in Roma, via Asiago 8, presso lo studio dell'avvocato Michele Aureli, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato Sergio Galli giusta procura speciale a margine del controricorso;
- controricorrenti -
avverso la sentenza n. 407/2012 della Corte D'Appello di Bologna, depositata il 13/03/2012, R.G.N. 1910/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/02/2016 dal Consigliere Dott. Francesco Maria Cirillo;
udito l'Avvocato Giancarlo Migani;
udito l'Avvocato Paolo Gnignati per delega;
udito l'Avvocato Michele Aureli;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alberto Cardino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. B.G. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Rimini, la Cassa di risparmio di Rimini s.p.a. (d'ora in avanti CARIM) e la s.n.c. Zamagni di Z.C. chiedendo che fossero condannati in solido al pagamento della somma di Lire 27 milioni (pari ad Euro 13.944,34) per la pretesa inosservanza di quanto stabilito nell'accordo sottoscritto fra le parti in data 25 luglio 1994.
A sostegno della domanda l'attore espose che nella suindicata scrittura egli si era accordato con i convenuti - essendo tutti e tre creditori di C.O. e di M.S. - nel senso di estendere a tutti i benefici di alcune ipoteche iscritte su beni immobili della debitrice M.; accordo che implicava l'obbligo di ripartirsi le somme eventualmente ricavate dalla vendita degli immobili ipotecati in proporzione ai rispettivi crediti e la rinuncia a proporre azione esecutive, concorsuali o individuali, nei confronti dei menzionati debitori. La scrittura prevedeva anche l'impegno, assunto dai debitori, di vendere i propri beni immobili e, ove ciò non fosse stato possibile entro il 30 settembre 1995, l'impegno ulteriore di procedere ad un formale atto di cessione degli stessi beni pro soluto ai creditori, nei due mesi successivi. Aggiunse l'attore che, invece, era stato dichiarato il fallimento della debitrice M. e che i convenuti, pur avendo ricevuto in sede fallimentare quanto loro dovuto, non avevano poi provveduto ad onorare la scrittura privata di cui sopra, versando il solo importo di Lire 23 milioni anzichè l'intero credito di Lire 50.943.681.
Si costituirono entrambi i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda, condannando il B. al pagamento delle spese di lite.

2. La pronuncia è stata appellata dall'attore soccombente e nelle more del giudizio di appello la società Zamagni è stata volontariamente sciolta, costituendosi in luogo di questa i soci superstiti Z.C. e B.V.
La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 13 marzo 2012, ha respinto il gravame, condannando l'appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale - dichiarando di concordare con la motivazione di rigetto emessa dal Tribunale - che il contratto sottoscritto dalle parti in data 25 luglio 1994 era "l'unico documento veramente significativo, che rende superflua ogni altra emergenza istruttoria, poichè basta leggerlo e interpretarlo per dirimere la lite sul suo contenuto". L'interpretazione di quel documento non lasciava alcun dubbio sull'effettiva volontà delle parti di risolvere con vendite private, fatte direttamente dai debitori ovvero dai creditori in caso di cessione dei beni, la complessa situazione debitoria che interessava molti creditori. La funzione concreta di quell'accordo, quindi, era finalizzata ad evitare sia le esecuzioni individuali che un'eventuale dichiarazione di fallimento; ne conseguiva, pertanto, che la sopravvenuta dichiarazione di fallimento della debitrice M. rendeva ormai irrealizzabile la funzione dell'accordo, perchè la liquidazione concorsuale dei beni era "incompatibile con la previsione della volontà privata espressa quel 25 luglio", la quale non poteva più costituire "la base per eseguire un accordo ormai irrimediabilmente superato dalla realtà".
Ha poi aggiunto la Corte bolognese che non poteva giovare alla tesi dell'appellante il fatto che, una volta liquidati i debiti in sede fallimentare, la Banca CARIM avesse versato una somma al B., perchè tale fatto poteva al più dimostrare solo che la Banca aveva in tal modo estinto ogni debito nei confronti dell'appellante. L'interpretazione data dal Tribunale, dunque, era da condividere, nè lo stesso B. aveva invocato la specifica lesione di una qualche norma in tema di interpretazione del contratto; d'altra parte, il fallimento era stato chiesto dopo la scadenza del termine fissato per le vendite nel citato accordo, sicchè la mancata realizzazione della vendita privata dei beni dei debitori faceva venire meno ogni possibile rilevanza della scrittura privata.

3. Contro la sentenza della Corte di appello di Bologna propone ricorso B.G., con atto affidato ad un solo motivo.
Resistono la Banca CARIM con controricorso, nonchè Z. C. e B.V. con altro unico controricorso.
B.G. e la Banca CARIM hanno depositato memorie.

Motivazione

1. Con il primo motivo ed unico di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 C.P.C., comma 1, nn. 3) e 5), errata e/o falsa applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c.
Rileva il ricorrente che i firmatari della scrittura privata del 25 luglio 1994 avevano riconosciuto reciprocamente l'esistenza dei crediti di cui ciascuno era portatore e, poichè alcuni crediti erano garantiti da ipoteche, avevano deciso di fare consolidare queste ultime, raggiungendo un accordo per il riparto delle somme ricavate; contestualmente, le parti avevano rinunciato a svolgere iniziative esecutive concorsuali nei confronti dei debitori. Tale essendo la volontà consacrata nella scrittura, si spiegherebbe anche il riferimento fatto al riparto delle somme eventualmente ricavate (punto 4 del contratto), in tal modo dimostrando che la volontà delle parti era nel senso di "partecipare tutti alla divisione delle somme ricavate, indipendentemente dalla circostanza che questa fosse il risultato di una procedura concorsuale".

Da tale interpretazione conseguirebbe, secondo il ricorrente, la violazione delle norme di interpretazione compiuta dalla Corte d'appello, la quale avrebbe errato nel "non tenere conto del comportamento tenuto dalle parti successivamente alla sottoscrizione del contratto"; la Banca CARIM, infatti, ha liquidato al B. la somma in proporzione a lui spettante e tale comportamento confermerebbe "che la volontà delle parti contraenti era che a tutti pervenisse una somma proporzionale al credito vantato, in caso di vendita diretta o tramite procedura concorsuale".

1.1. Il motivo non è fondato.

Va premesso che in tema di interpretazione del contratto, questa Corte ha in più occasioni affermato che la medesima, consistendo in un'operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un'indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche; per cui non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati (sentenze 27 marzo 2007, n. 7500, e 30 aprile 2010, n. 10554).
Analogamente, si è detto che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l'interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto quella poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (sentenze 20 novembre 2009, n. 24539, 18 novembre 2013, n. 25861, e 4 marzo 2014, n. 5016).

Risulta da tale pacifica giurisprudenza, alla quale questo Collegio intende dare continuità, che le doglianze relative alla presunta violazione delle regole sull'interpretazione dei contratti - peraltro formulate con un generico richiamo agli artt. 1362 e 1363 c.c., senza alcuna precisazione - sono destituite di fondamento.

1.2. La Corte d'appello, infatti, con una motivazione congrua e priva di contraddizioni e di vizi logici, ha interpretato il contratto del 25 luglio 1994 ed è pervenuta alla conclusione che esso era finalizzato ad evitare la liquidazione giudiziale del patrimonio, sia mediante esecuzione individuale che concorsuale. A tal fine le parti avevano rinunciato alla possibilità di agire per ottenere la dichiarazione di fallimento dei debitori, fissando anche il limite temporale di validità dell'accordo al 30 settembre 1995, prorogabile di altri due mesi (con cessione pro soluto dei beni). Ed ha aggiunto la Corte di merito che la sopravvenuta dichiarazione di fallimento, "con la sua disciplina di verifica del passivo e liquidazione dell'attivo insensibile ai patti privati anteriori", rappresentava un'evidente "cesura" che rendeva "irrealizzabile" il contenuto del precedente accordo.

Si tratta di un'interpretazione plausibile e del tutto ragionevole, anche perchè sarebbe illogico che le parti si precludano sine die la possibilità di agire per la dichiarazione di fallimento.

Per cui, in definitiva, il ricorso è fondato sulla volontà della parte ricorrente di sentirsi riconoscere ciò che la Corte d'appello ha consapevolmente negato, e cioè l'ultrattività dell'accordo anche in caso di instaurazione di una procedura giudiziale; il che equivale a sostituire la propria interpretazione a quella del giudice di merito. Nè può derivare alcuna perplessità dal fatto che la Banca abbia versato una qualche somma al B. dopo la liquidazione avvenuta in sede fallimentare, trattandosi di una circostanza valutata dalla Corte bolognese, che non le ha attribuito altra validità se non quella di chiudere ogni rapporto tra la Banca e l'odierno ricorrente.

Il motivo, quindi, è nel suo complesso rivolto a sollecitare questa Corte ad un diverso e non consentito esame del merito.

2. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate per ciascuno dei controricorrenti in complessivi Euro 3.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 3 febbraio 2016.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2016


 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.