LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Vittorio SGROI Primo Presidente
" Francesco FAVARA Pres. di Sez.
" Antonio SENSALE "
" Raffaele NUOVO Consigliere
" Raffaele MAROTTA "
" Giuseppe BORRÈ Rel. "
" Francesco AMIRANTE "
" Massimo GENGHINI "
" Vincenzo CARBONE "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
A.S.P.I.C.A. (Assunzione Servizi Pubblici Impianti Costruzioni Appalti) s.r.l., in persona del suo Presidente p.t., elett.te dom.ta in Roma, Via Michele Mercanti n. 51-3, presso lo studio dell'avv.to Ennio Luponio, rapp.ta e difesa dall'avv.to Vincenzo Loragno per mandato a margine del ricorso;
Ricorrente
contro
COMUNE di ISCHIA, in persona del Sindaco pt., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. MARIA MAGGIORE 112, presso lo studio dell'Avvocato ALDO DI LAURO, rappresentato e difeso dall'Avvocato ERNESTO PROCACCINI, giusta delega a margine del controricorso;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 686-90 della Corte d'Appello di NAPOLI dep. il 2.4.90 (R.G. n. 3583-87);
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27-10-95 dal Consigliere Relatore Dott. Giuseppe BORRÈ;
uditi gli avv.ti Como p.d. e Romano p.d.;
udito il P.M., nella persona del Dr. Morozzo Della Rocca, Avv.to Gen.le presso la Corte Suprema di Cassazione che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 5 aprile 1986 la s.r.l. ASPICA, premesso di aver noleggiato al Comune di Ischia vari automezzi per alcuni pubblici servizi, per il complessivo importo di lire 186.421.282, e di aver ricevuto in acconto soltanto lire 12.950.000, convenne il predetto Comune innanzi al Tribunale di Napoli per sentirlo condannare al pagamento del residuo credito, oltre interessi e spese. Nell'udienza di precisazione delle conclusioni, nella quale il convenuto non era presente, la società ASPICA propose anche, in subordine, azione di arricchimento senza causa e in comparsa conclusionale prospettò la responsabilità del Comune per culpa in contrahendo.
Il Tribunale, pur avendo ritenuto il difetto di legittimazione processuale del presidente della società ASPICA, tuttavia, ad abundantiam, esaminò le domande nel merito e tutte le disattese: quella di adempimento per essere inesistente o invalido il vincolo contrattuale, siccome non stipulato con le deliberazioni, le forme e le autorizzazioni proprie di un contratto con la pubblica amministrazione; quella ex art. 2041 c.c., proposta nell'udienza di precisazione delle conclusioni in assenza del convenuto, perché costituente domanda nuova, relativamente alla quale non vi era stata accettazione del contraddittorio, e quella ex art. 1337 c.c. perché formulata per la prima volta in comparsa conclusionale.
Propose appello la società ASPICA alla Corte di Napoli, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado sia in punto di legittimazione processuale, sia relativamente alle domande di merito, che tutte ripropose. La Corte, con sentenza del 2 aprile 1990, accolse l'appello sul primo punto, ma lo rigettò nel resto, rilevando che era infondata la tesi della società ASPICA secondo cui l'azione di arricchimento non costituirebbe domanda nuova, implicando essa, in realtà, nuovi temi di fatto, relativamente ai quali oltretutto difettavano elementi di prova, che infondato era altresì l'assunto secondo cui tale domanda dovrebbe, anche se nuova, ritenersi acquisita al processo per non averne la controparte tempestivamente eccepito la novità; e che del pari era da respingere la tesi secondo cui il Tribunale avrebbe potuto "accogliere autonomamente" la domanda ex art. 1337 c.c., proposta in comparsa conclusionale.
Contro tale sentenza la società ASPICA ha proposto ricorso per cassazione, svolgendo un unico articolato motivo. Il Comune ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
La prima sezione civile, cui il ricorso era stato originariamente assegnato, ha rilevato un duplice contrasto di giurisprudenza: relativamente alla novità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa rispetto a quella originariamente proposta di adempimento contrattuale e sul problema se il mero silenzio possa configurare accettazione del contraddittorio su domanda nuova. Conseguentemente ha rimesso il ricorso al Primo Presidente, che lo ha assegnato alle Sezioni unite.

Motivazione

1. Va preliminarmente rilevato che la società ASPICA, in memoria, ha eccepito la invalidità della costituzione del Comune in tutti i tre gradi di giudizio che si sono susseguiti, mancando per il primo la prova dell'autorizzazione al sindaco a resistere alla domanda e sussistendo, per gli altri due gradi, la sola autorizzazione della giunta comunale, non ratificata dal consiglio. Ciò invaliderebbe la costituzione anche in questa sede, pur essendosi la stessa verificata dopo l'entrata in vigore della legge 8 giugno 1990 n. 142, in quanto il Comune di Ischia non aveva, all'epoca, adottato lo statuto previsto dalla legge medesima.
Relativamente ai precedenti gradi, rilevano le Sezioni unite che il Comune ha sempre rivestito la qualità di convenuto, sicché non si pone la questione (che sarebbe ovviamente rilevabile di ufficio) dello stesso radicamento iniziale del processo e della sua evoluzione al grado successivo. Va detto, d'altra parte, che il Comune non ha svolto eccezioni non rilevabili di ufficio nè comunque preso iniziative condizionanti, in relazione alle quali sia indispensabile verificare la costituzione nei relativi gradi. Semmai è da notare che il suo difetto di costituzione renderebbe operante l'art. 292 c.p.c. (necessità di notifica della domanda nuova al contumace), rendendo più sfavorevole la situazione della società ASPICA. Quanto ad altre conseguenze dell'ipotetico difetto di costituzione (non spettanza al Comune delle spese processuali liquidate in suo favore), esse sono comunque irremovibili, non essendovi impugnazione sul punto.
Relativamente, poi, all'attuale fase di legittimità, la costituzione del sindaco risulta autorizzata con deliberazione della giunta comunale, in piena conformità con le disposizioni della legge 142-1990, come questa Corte ha ripetutamente affermato (v., fra altre, sent 3811-94).

2. Sgombrato il campo da tale eccezione in rito, occorre ora passare all'esame del ricorso.
La ricorrente società ASPICA deduce violazione degli artt. 115, 116, 184 c.p.c. in relazione agli artt. 1337, 2041, 2042 c.c.; "difetto di motivazione e travisamento interpretativo del fatto storico della domanda e di quello processuale"; nonché "omessa valutazione delle prove anche in ordine alla più corretta applicazione dell'art. 345 c.p.c.".
Con riferimento all'art. 1337 c.c. sostiene la ricorrente che il giudice avrebbe potuto "autonomamente accogliere la domanda... indipendentemente dalle indicazioni, tempestive o intempestive, offerte dalla parte".
Assume poi che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa non avrebbe carattere di novità perché essa sarebbe stata fin dall'inizio contenuta nella pretesa espressa dall'attrice, pretesa che il giudice avrebbe dovuto interpretare tenendo presente la effettiva volontà della parte e lo scopo da essa perseguito mediante il giudizio; non sussisterebbero pertanto gli estremi della mutatio libelli, avuto presente che non ogni mutamento della causa petendi determina novità della domanda e che, in particolare, ciè è da escludere nel caso di proposizione dell'azione di arricchimento senza causa, la quale, rispetto all'originaria azione contrattuale, non richiederebbe ulteriori e diverse indagini e non comporterebbe altro che un eventuale mutamento quantitativo nella pronuncia del giudice.
Sussisterebbe, poi, secondo la ricorrente, un'ampia mole di prove documentali, che renderebbe del tutto immotivata l'affermazione della Corte di appello circa la impossibilità di verificare la locupletazione del Comune.

3. La ricorrente sembra costruire un distinto contesto argomentativo relativamente alla domanda ex art. 1337 c.c., prospettando una "autonoma" possibilità del giudice di accoglierla "indipendentemente dalle indicazioni offerte dalla parte". Come a dire: se anche il tema fosse stato introdotto fuori tempo, nondimeno si tratterebbe di materia su cui il giudice può interloquire di ufficio.
La prospettazione è oscura e comunque del tutto infondata, non scorgendosi ragione alcuna per cui dovrebbe sussistere, relativamente alla culpa in contrahendo, un tale potere officioso. Il profilo di censura in esame va dunque respinto.

4. Prima di procedere oltre nell'esame del ricorso, sottoponendo ad analisi i due accennati contrasti di giurisprudenza, è necessaria una precisazione. La causa fra la società ASPICA ed il Comune di Ischia era pendente al 30 aprile 1995 e pertanto, a mente dell'art. 90 della legge 26 novembre 1990 n. 353, come successivamente modificato (v., da ultimo, art. 9 del d.l. 432-1995 convertito nella legge 534-1995), trovano per essa applicazione le disposizioni anteriormente vigenti del codice di procedura civile, vale a dire, per i problemi che qui rilevano, il testo ante novella degli artt. 183, 184, 345. Queste, del resto, erano le norme di rito vigenti nel momento in cui le vicende processuali in questione si sono verificate. Ne consegue che le conclusioni, cui perverranno le Sezioni unite, saranno legate e quindi anche condizionate a tale normativa.
La precisazione ha rilievo soprattutto per quanto riguarda il secondo "contrasto" sopra indicato, in relazione all'affermazione, consolidata nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nel rito ordinario, a differenza che nel rito del lavoro, il divieto di domande nuove nel corso del giudizio di primo grado è posto nell'interesse della parte, per cui è disponibile il diritto di questa di far valere la violazione del divieto stesso. Applicandosi, nel caso di specie, il sistema anteriore alla novella, resta impregiudicato se le norme di questa, che hanno diversamente disciplinato la introduzione del processo e più rigorosamente disegnato la sua fase assertiva, incidano o meno sulla ricordata posizione giurisprudenziale.

5. Ciò premesso, deve ora affrontarsi il problema (che dà materia al primo dei due contrasti giurisprudenziali) se la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa, proposta nel corso di un giudizio aperto da una domanda di adempimento contrattuale, costituisca domanda nuova.
La giurisprudenza, più risalente, che esclude il carattere di novità, e che il più delle volte ha riguardo alla proposizione della domanda ex art. 2041 c.c. per la prima volta in appello (giurisprudenza tuttavia estensibile all'ipotesi di proposizione di tale domanda nel corso del giudizio di primo grado, salve, come vedremo, le conseguenze ricollegabili in questo caso all'inerzia o all'accettazione del contraddittorio da parte di chi potrebbe dolersi della novità), fa leva sulla condizione che la domanda predetta sia formulata in base alle medesime circostanze di fatto già utilizzate nella originaria editio actionis (sent. 5346-81, ma anche, recentemente, 8558-93).
Non mancano peraltro decisioni in cui l'affermazione della sostituibilità della domanda contrattuale con quella di indebito arricchimento appare incondizionata, giacché sussisterebbe una immancabile identità del fatto dedotto in giudizio. "Qualora - è stato detto - in primo grado sia stata proposta nei confronti della pubblica amministrazione una domanda di pagamento di compensi per prestazione d'opera professionale... svolta a vantaggio dell'amministrazione medesima e tale domanda non trovi accoglimento per essere stato invalidamente conferito l'incarico senza la forma scritta richiesta ad substantiam per le manifestazioni di volontà degli enti pubblici, può essere proposta in appello, senza incorrere in violazione dell'art. 345 c.p.c., l'azione di arricchimento senza causa, in quanto fondata sulla stessa situazione di fatto"; e quanto al riconoscimento dell'utilità da parte della pubblica amministrazione, nel quale si ravvisa un elemento costitutivo del diritto all'indennizzo, "esso deve ritenersi dedotto in primo grado e compreso nell'ambito della materia devoluta all'esame del giudice di gravame, per essere stato fatto valere un titolo assorbente e più ampio, quale è il conferimento, sia pure formalmente invalido, dell'incarico professionale" (sent. 1253-79, nonché 714-73, 1579-71). In altri casi la stessa conclusione è raggiunta sul presupposto della irrilevanza del "mero mutamento della causa petendi" (sent. 77-85, 3888-85, 2446-76, 2157-75, 3282-71), in consonanza con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui non ogni modificazione della causa petendi implica novità della domanda, ma "soltanto quello che importi un mutamento della situazione giuridica che si afferma e si persegue nel processo" (sent. 35-62, 5941-80).
Nella giurisprudenza più recente prevale invece la opposta lettura, secondo cui la domanda di indebito arricchimento è nuova rispetto a quella di adempimento contrattuale, essendo diversi sia la causa petendi che il petitum, come dimostrano, quanto alla prima, il fatto stesso di invocare in un caso un vincolo contrattuale e di prescindere nell'altro, e, quanto al secondo, il fatto che l'azione contrattuale abbia per oggetto il pagamento del corrispettivo pattuito, laddove quella per indebito arricchimento mira al conseguimento di "un indennizzo equivalente alla diminuzione patrimoniale subita, cui corrisponda (e che non superi) l'arricchimento non causalmente giustificato dell'altro soggetto" (sent. 8677-93, 5367-92). In particolare, tale specificità del titolo dell'azione di arricchimento fa sì che la questione della sua individuazione "esorbiti dai limiti della mera qualificazione della domanda originariamente formulata ed esclude che essa si possa ritenere proposta, per implicito, in una domanda fondata su altro titolo" (sent. 6612-92, 6253-87).
È stata anche affermata, con la sentenza 2374-85, la inammissibilità della domanda contrattuale proposta in sostituzione di originaria domanda di indebito arricchimento, appunto perché questa, "in relazione alla locupletazione che un soggetto abbia ricevuto beneficiando di una prestazione senza pagarne il corrispettivo, assume, rispetto all'azione contrattuale rivolta a conseguire detto corrispettivo, i connotati di una domanda non solo sussidiaria (art. 2042 c.c.), ma anche distinta, risultando diversi tanto il bene cui tende l'azione stessa (petitum) quanto i fatti giuridici posti a suo fondamento (causa petendi)".

6. Ritengono le Sezioni unite che il secondo - più recente - orientamento, che scorge gli estremi della mutatio libelli nel passaggio dall'una all'altra delle domande sopra considerate, sia soluzione concettualmente e sistematicamente preferibile.
È noto che, mentre nei diritti c.d. autodeterminati "il bene giuridico formante oggetto della domanda è individuabile nella sua essenza indipendentemente dalla causale che ne determina la richiesta" (così la sent. 2450-74), trattandosi in tal caso, come precisa la dottrina, di diritti (tipico quello di proprietà) che non possono coesistere simultaneamente più volte fra i medesimi soggetti, nei diritti c.d. eterodeterminati, invece, "il bene richiesto acquista determinatezza solo mediante il collegamento con la causale addotta a sostegno della pretesa" (sentenza ult. cit.). In questa seconda ipotesi, infatti, vengono dedotti diritti (tipicamente di obbligazione) che possono esistere contemporaneamente più volte fra i medesimi soggetti con lo stesso contenuto e che perciò richiedono, quale indispensabile elemento di individuazione, l'allegazione dei fatti costitutivi sui quali essi si fondano.
Va ribadito, poi, che la ratio delle norme che inibiscono il mutamento, nel corso del processo, della pretesa di un soggetto nei confronti dell'altro, risiede nell'esigenza di evitare che ciò implichi il cambiamento del bene giuridico perseguito e-o la immutazione dei fatti, giuridicamente rilevanti, posti a fondamento della domanda con l'atto introduttivo, tanto da risultarne un tema di indagine (e di decisione) diverso da quello originario, con effetti pregiudizievoli per la limpidezza e la funzionalità del contraddittorio (per tutte, sent. 1286-80); restando per contro consentita l'emenda della domanda quando ciò non rivesta le suddette caratteristiche o si limiti ad una diversa interpretazione e-o qualificazione giuridica dei fatti versati in causa (sent. 6517-82, 2034-86, 11763-90).
Premesso che entrambe le domande, che vengono in rilievo nella specie, vale a dire tanto la domanda di adempimento contrattuale quanto quella di indebito arricchimento, riguardano diritti eterodeterminati, per la cui individuazione è indispensabile il riferimento ai relativi fatti costitutivi, occorre chiedersi se questi, nelle due ipotesi indicate, costituiscano articolazioni di una matrice, in definitiva, unica, sì da potersi dire che le due domande sono in qualche modo intercambiabili intorno ad un identico nucleo di fatto, o se non sia vero invece che i fatti costitutivi, che rispettivamente le individuano, divergono sensibilmente fra loro e identificano due distinte entità, nessuna delle quali può dirsi potenzialmente contenente l'altra o potenzialmente in essa contenuta.
Ritengono le Sezioni unite che la risposta debba darsi in questo secondo senso. Appare semplificante, infatti, affermare che l'attore, nel proporre in corso di causa l'azione di arricchimento, mutua la situazione di fatto da lui già versata nel giudizio (per esempio, come nel caso di specie, la già dedotta esecuzione di un'opera o di un servizio in favore di una pubblica amministrazione), limitandosi, in presenza di una causa di nullità del contratto non stipulato nelle forme di legge, a proporre una qualificazione giuridica alternativa del proprio diritto a compenso. In realtà l'attore, sostituendo alla originaria domanda contrattuale quella di arricchimento, non solo chiede un bene giuridico diverso (indennizzo) rispetto al pagamento del corrispettivo pattuito, così immutando il petitum mediato della propria originaria azione, ma altresì e soprattutto induce nel processo gli elementi costitutivi propri della nuova situazione giuridica, vale a dire la presenza e l'entità del proprio impoverimento e dell'altrui locupletazione, che costituiscono gli assi portanti della architettura fattuale della nuova pretesa e che viceversa erano privi di ogni rilievo nel rapporto contrattuale, stante la vincolatività, per se stessi, dei reciproci pesi e vantaggi delle parti in quanto previamente pattuiti.
Assai pertinente è poi il rilievo aggiuntivo, formulato dalla prima sezione civile di questa Corte nella sentenza 8677-93, secondo cui l'arricchimento senza causa, per operare nei confronti della pubblica amministrazione, esige, da parte di questa, il riconoscimento della utilitas, sicché la domanda si incrementa di questo ulteriore elemento costitutivo. Nè gioverebbe replicare, come fece la già ricordata sentenza 1253-79, che tale elemento sarebbe ricompreso nella domanda contrattuale precedentemente proposta, perché implicito nel più ampio e assorbente titolo rappresentato dal conferimento dell'incarico. In realtà tale impostazione confonde fra determinazione ex ante del contenuto contrattuale, come tale automaticamente vincolante, e individuazione ex post di impoverimento e locupletazione, che operano in quanto si siano concretamente verificati e che costituiscono limite l'uno all'altra come fonte dell'indennizzo, così individuando una realtà di fatto diversa e non semplicemente qualificando in altro modo una realtà già appartenente alla causa.

7. Dimostrato che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente proposta dalla società ASPICA, una domanda nuova, occorre ora chiedersi se la Corte di appello abbia correttamente escluso l'acquisizione di essa alla causa, considerato che la domanda stessa è stata proposta dall'attrice nell'udienza di precisazione delle conclusioni (in primo grado) e che la controparte, assente in tale udienza, non ne ha rilevato la novità.
Richiamato quanto sopra precisato al n. 4, lo stato della giurisprudenza, esistente al riguardo, può essere sintetizzato come segue.
Quanto al rito del lavoro, si ritiene "non ammissibile la proposizione di una domanda nuova, neppure con il consenso della controparte manifestato espressamente con l'accettazione del contraddittorio od implicitamente con la difesa nel merito, e ciò perché, in tale rito, la rigida disciplina della fase introduttiva del giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano" (sent. 6195-87, 7007-88).
Quanto al rito ordinario, si distingue fra domande nuove in appello, la cui preclusione "è assoluta e rilevabile di ufficio, derivando dal principio inderogabile del doppio grado di giurisdizione", e domande nuove nel corso del giudizio di primo grado, l'inosservanza del cui divieto "non dà luogo a nullità rilevabile di ufficio, essendo (il divieto stesso) volto unicamente ad evitare rallentamenti nel corso del processo e l'aggravamento dell'onere di difesa della controparte, con la conseguenza che la parte interessata può rinunciare ad eccepirlo accettando il contraddittorio, esplicitamente o per fatti concludenti, sulla nuova domanda" (sent. 2076-89, 5809-88, 1066-83; per la estensione del principio alle domande riconvenzionali tardivamente proposte, sent. 3116 e 8227 del 1990).
Da qualche decisione si precisa che quella intesa a denunciare la novità della domanda in primo grado è eccezione in senso "tecnico" (sent. 691-76), con ciò volendosi dire "riservata alla parte", per cui il giudice non puè nè supplire all'inerzia della parte che non proponga l'eccezione, nè superare la rinuncia all'eccezione che la parte implicitamente ponga in essere con l'accettazione del contraddittorio. Resta, tuttavia, nella giurisprudenza, non univocamente definito il rapporto intercorrente fra mancata proposizione dell'eccezione (di novità della domanda) e accettazione del contraddittorio (sulla domanda nuova). Fermo che l'accettazione del contraddittorio può essere anche tacita, cioè desumibile da comportamenti concludenti (sent. 2681-84, 3370-85, 2478-90), quali, in particolare, la difesa nel merito della domanda nuova (sent. 6514-80, 3620-82) o il rifiuto del contraddittorio soltanto per alcune delle domande nuove (sent. 395-86), e che la intervenuta accettazione del contraddittorio preclude la possibilità di proporre successivamente l'eccezione di novità (sent. 5442-84), è controverso se la mancata proposizione dell'eccezione entro il termine posto dall'art. 184 c.p.c., vale a dire (secondo il testo anteriore alla novella, nella specie applicabile) fino all'udienza di precisazione delle conclusioni definitive, di per sè comporti, o non, accettazione del contraddittorio, con conseguente impossibilità, nel primo caso, di far valere successivamente l'eccezione, ed applicabilità, invece, nel secondo caso, dell'art. 345 (vecchio testo) c.p.c., che consente di avvalersi in appello di eccezioni non formulate (sebbene formulabili) nel giudizio di primo grado.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la inammissibilità della domanda nuova "non può essere eccepita da chi abbia accettato il contraddittorio anche tacitamente, non formulando su di essa alcuna eccezione fino all'udienza di precisazione delle conclusioni" (sent. 2171-72, 4950-80, 6596-86). Anche il "mero silenzio", cioè, è idoneo ad integrare l'accettazione tacita del contraddittorio. E pur quando "una domanda nuova sia stata proposta in sede di precisazione delle conclusioni definitive del giudizio di primo grado e l'altra parte abbia omesso di eccepire (nell'udienza stessa) la preclusione, il contraddittorio deve intendersi tacitamente accettato, con la conseguenza che non è più possibile far valere, nelle successive fasi processuali, la inammissibilità della domanda" (sent 739-74, 3598-77, 3026-81, 7554-86, 72-87, 3956-88). Talvolta, peraltro, viene precisato che tale effetto si produce soltanto se la parte, contro cui la domanda è proposta in tale udienza, sia presente (sent. 4431-85, 1204-82, 4496-78, 1848-76), ma non manca qualche pronuncia che espressamente prescinde da tale condizione (sent. 2091-92, relativa ad un caso di assenza del difensore dall'udienza per rinuncia al mandato).
A ciò si contrappone un orientamento, numericamente minoritario, secondo cui "l'accettazione del contraddittorio, che rende ammissibile la domanda nuova formulata nel corso del giudizio di primo grado, può essere desunta anche da fatti concludenti, ma non dal mero silenzio della controparte" (sent. 4234-90), con la conseguenza che, nel caso di domanda nuova proposta nell'udienza di precisazione delle conclusioni, "la mancata contestazione nell'udienza stessa potrà essere ritenuta tacita accettazione del contraddittorio solo se sarà certo che la parte, contro la quale la domanda è stata proposta, abbia voluto prestare acquiescenza a tale tardiva proposizione" (sent. 3028-74, 5241-83).

8. Così sintetizzato lo stato della giurisprudenza, ritengono le Sezioni unite di far propria (con la precisazione formulata nel n. 4) la premessa secondo cui il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado è posto a tutela della parte che della domanda è destinataria, donde la non sanzionabilità della violazione del divieto in presenza di un "atteggiamento non oppositorio" (volutamente viene usata, in prima approssimazione, questa espressione generica) della parte stessa.
Resta tuttavia da stabilire in che cosa tale "atteggiamento non oppositorio" debba consistere (e come esso debba essere giuridicamente costruito) per produrre l'accennato effetto dell'acquisizione della domanda al processo con relativa insorgenza, relativamente ad essa, del dovere decisorio del giudice. Nella vasta e non sempre limpida congerie delle massime, il fenomeno è talvolta rappresentato in negativo, come difetto di (tempestiva) proposizione dell'eccezione di domanda nuova, talaltra, invece, in positivo, come accettazione - espressa o tacita - del contraddittorio sulla domanda stessa.
Sebbene a volte le sentenze, per una certa approssimazione di linguaggio, possano indurre a ritenerlo, è da escludere che le due impostazioni giurisprudenziali siano riducibili ad unità, nel senso che la mancata proposizione dell'eccezione di novità costituirebbe accettazione del contraddittorio sulla domanda nuova e, reciprocamente, l'accettazione, anche tacita, del contraddittorio equivarrebbe a rinuncia a proporre l'eccezione predetta. In realtà le due impostazioni esistono come orientamenti distinti e individuano (pur nell'ambito della premessa "liberale" sopra stabilita) due diversi livelli di "disponibilità" della situazione conseguente alla violazione del divieto di domanda nuova e un differente rapporto, al riguardo, fra potere della parte e potere del giudice. Al di là della formulazione letterale, non sempre limpida, delle singole decisioni, la specificità dei due orientamenti esiste e va, secondo le Sezioni unite, così ricostruita. Il primo orientamento, impostando il problema in termini di eccezione di novità e attribuendo ad essa, come si è visto, il carattere di eccezione riservata alla parte, eleva al massimo l'effetto condizionante della volontà di questa rispetto all'espulsione della domanda nuova.
L'altro orientamento, invece, ammette che con l'eccezione (in senso ampio) della parte concorra il potere officioso del giudice di rilevare la novità (e quindi la inammissibilità) della domanda, anche se tale potere può essere prevenuto e posto fuori gioco dal fatto che la parte, espressamente o tacitamente, accetti il contraddittorio su tale domanda. Insomma in un caso la domanda nuova è acquisita al processo a meno che la parte ne denunzi la irritualità, mentre nell'altro caso la domanda va rimossa dal giudice (nel senso che egli, in sentenza, ne rileverà la inammissibilità e non la deciderà nel merito) a meno che la parte abbia accettato su di essa il contraddittorio; in un caso, cioè, occorre fare qualcosa (eccepire la novità) perché la domanda sia espunta, mentre nell'altro caso occorre fare qualcosa (accettare il contraddittorio) per impedire al giudice di espungerla.
Così identificate e precisate le due impostazioni che convivono in giurisprudenza, ritengono le Sezioni unite che la prima di esse, basata sul potere-onere della parte di eccepire la novità, sia più difficilmente armonizzabile con il sistema positivo. Intanto va detto che non v'è concordia all'interno di essa, perché mentre alcune sentenze richiamano il regime temporale proprio delle eccezioni in genere, affermando che l'eccezione di novità della domanda può essere proposta fino all'udienza di precisazione delle conclusioni (art. 184 c.p.c.), e anche in appello (art. 345 c.p.c.) - norme da intendersi richiamate, come già detto, nel testo ante novella -, da altre sentenze si esige invece che tale eccezione sia proposta in prima difesa o, meglio, immediatamente. Appartengono a questa seconda categoria le numerose sentenze che, in caso di proposizione di domanda nuova nell'udienza di precisazione delle conclusioni, richiedono che l'eccezione di novità sia formulata in quella stessa udienza. Al riguardo va osservato che tale immediatezza non è richiesta perché quell'udienza rappresenta il dies ad quem delle eccezioni nel corso del grado: se si trattasse di questo, l'eccezione resterebbe possibile in appello in virtù dell'art. 345 c.p.c., laddove, invece, la giurisprudenza in esame precisa che, se non fatta valere nella stessa udienza di precisazione delle conclusioni, "l'inammissibilità della domanda nuova non può essere più dedotta nè in comparsa conclusionale nè nei successivi gradi di giudizio" (sent. 1848-76, 1368-78).
In realtà entrambe le versioni dell'impostazione giurisprudenziale in esame non paiono accettabili. Se si fa riferimento al regime generale dei limiti temporali delle eccezioni, ne deriva che, quanto più tale regime è elastico, cioè consenziente ai mutamenti di strategia difensiva, tanto più sarà ampia la possibilità di reagire contro la domanda nuova, che pure è in qualche modo un fenomeno dello stesso segno, venendosi così a determinare una sorta di paradosso che non può non porre in guardia contro l'ipotesi costruttiva. Si aggiunga che la possibilità (derivante da tale regime temporale) di proporre l'eccezione di novità anche in appello, dopo che la domanda è stata decisa nel merito, presenta aspetti di marcata discutibilità, diversi e più forti di quelli che parte della dottrina segnala con riferimento in generale al novum in appello, avuto presente che l'eccezione di cui si discute ha sostanzialmente il carattere di un "veto" meramente potestativo.
Forse anche per superare tali aporie è emerso, nell'ambito della impostazione giurisprudenziale in esame, il diverso orientamento che restringe rigorosamente il termine dell'eccezione di novità, addirittura riducendolo ai "pochi minuti" (così è stato detto in dottrina) entro cui è necessario reagire alla domanda nuova proposta nell'udienza di precisazione delle conclusioni. Ma nemmeno questo itinerario sembra percorribile. Non è consentito, infatti, creare pretoriamente l'onere di un'eccezione in prima difesa (o addirittura istantanea) al di fuori di un sicuro riferimento normativo. Nè soccorre, a questo riguardo, il secondo comma dell'art. 157 c.p.c., perché la norma concerne il campo delle c.d. nullità formali, al quale l'ipotesi della novità della domanda non è ascrivibile.
La inaccettabilità di entrambe le versioni dell'impostazione giurisprudenziale fin qui considerata induce a ritenere non praticabile il tentativo di costruire la "acquisizione" della domanda nuova al processo in chiave di mancata (o tardiva) eccezione di novità; e conseguentemente sospinge verso l'opposto versante ricostruttivo che fa leva sull'accettazione del contraddittorio o comunque sulla rilevabilità, in tal senso, di un concludente comportamento della parte.
Tale orientamento non è privo, come è stato rilevato in dottrina, di riscontri comparativistici, ed appare inoltre più coerente con la tradizione culturale (si potrebbe dire con la filosofia) da cui è scaturita la giurisprudenza "possibilista" in tema di domande nuove nel corso del giudizio di primo grado. Tale filosofia valorizza un momento consensualistico nella determinazione dell'oggetto del giudizio e perciò essa, mentre trova rispondenza nella prospettiva dell'accettazione del contraddittorio, incontra invece smentita in una massima come quella secondo cui, proposta una domanda nuova nell'udienza di precisazione delle conclusioni, sarebbe sufficiente il "silenzio di pochi minuti" della controparte per determinarne il radicamento nel processo. Tale massima è apparentemente "liberale", se tale appellativo si conviene (almeno in una certa visione del processo) alle posizioni di apertura alla domanda nuova, perché favorisce la stabilizzazione di questa, ma profondamente "illiberale" (ed anticonsensualistico) è il modo attraverso cui essa raggiunge tale risultato, restringendo drasticamente (fino a sostanzialmente vanificarlo) il tempo entro cui la controparte può esprimere la sua volontà contraria.
Chiarito il significato sistematico delle impostazioni giurisprudenziali che si dividono il campo e compiuta la scelta fra le stesse, è ora opportuno raccogliere le considerazioni fin qui svolte in alcune proposizioni conclusive:
a) L'eccezione di novità della domanda non è eccezione riservata alla parte, perché con la possibilità di reazione di questa concorre il potere officioso del giudice di rilevare (quando la causa gli perverrà in decisione) la novità, potere che tuttavia non è più esercitabile allorquando la parte, che potrebbe avere interesse ad impedire l'ingresso della domanda, abbia dichiarato di accettare il contraddittorio o tenuto un comportamento implicante accettazione;
b) Non è possibile, in questa sede, indicare specifici criteri di apprezzamento della concludenza del comportamento, giocando un ruolo determinante le caratteristiche del caso singolo, ma va precisato che accettazione tacita non significa accettazione ficta e che perciò deve seriamente indagarsi l'atteggiamento della parte per saggiare il grado di significatività che ad esso è realmente ricollegabile;
c) Il mero prolungarsi nel tempo del difetto di reazione alla domanda nuova non è di per sè decisivo e il giudice, quindi, in linea di principio, conserva il potere di dichiarare la inammissibilità della domanda stessa, anche se è difficile immaginare che non si verifichino vicende (per es. la deduzione o addirittura l'assunzione di una prova a sostegno di tale domanda) in relazione alle quali non sempre il difetto di reazione conserverà un significato neutro e potrà invece caricarsi, anche alla luce del principio di buona fede processuale, del valore di accettazione del contraddittorio;
d) Nel caso di formulazione della domanda nuova nell'udienza di precisazione delle conclusioni, è nettamente da escludere qualsivoglia concludenza nel senso dell'accettazione del contraddittorio se la parte, contro cui la domanda è proposta, non sia presente; ma tale concludenza è da negare (salvi casi eccezionali) anche se la parte sia presente, posto che, come si è visto, il mero silenzio, anche se prolungato, non è decisivo, e perciò tanto meno può attribuirsi significatività a quello che la dottrina ha chiamato un "silenzio di pochi minuti"; nè può rilevare il fatto che la parte continui a tacere anche in comparsa conclusionale, valendo ancora una volta il principio del significato neutro del silenzio;
e) Nel caso di contumacia il problema è risolto dalla legge (art. 292 c.p.c.), nel senso che, essendo imposta la notificazione della domanda nuova, da chiunque proposta, al contumace, questi, non costituendosi lungo tutto il giudizio di primo grado nonostante la nuova notificazione, pone in essere una presunta (iuris et de iure) accettazione del contraddittorio, che vincola il giudice a decidere la domanda nuova. La soluzione diverge da quella dell'art. 387 del codice di procedura civile del 1865, per il quale "l'attore nel corso del giudizio contumaciale non può prendere conclusioni diverse da quelle contenute nell'atto di citazione";
f) Accogliendo la prospettiva sopra delineata, un problema di proponibilità in appello della eccezione di novità di una domanda avanzata in primo grado non può porsi: in tal caso, si tratta di impugnare la sentenza se, non essendo stato accettato il contraddittorio, essa ha nondimeno pronunciato nel merito, mentre una pronuncia siffatta è del tutto corretta e non rimuovibile mediante una eccezione (di novità) in appello se il contraddittorio era stato accettato.

9. Applicando gli esposti principi al caso di specie, si può concludere che la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che fosse intervenuto un inammissibile mutamento della domanda originaria nell'udienza di precisazione delle conclusioni e che non fossero individuabili nel comportamento del Comune convenuto, non presente in tale udienza gli estremi dell'accettazione del contraddittorio. Il ricorso della società ASPICA va dunque rigettato.

10. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma il 27 ottobre 1995.


 

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