TRIBUNALE DI VIBO VALENTIA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Vibo Valentia, nella persona del G. I. Dott.ssa Patrizia Pasquin, in funzione di Giudice Unico, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n° 568/2001 R G.A.C., avente ad oggetto: "Rapporto bancario" vertente
TRA D******** S********** -attore-
E Banca C******** - convenuto-

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 28/4/2001, l’ing. D****** S******* adiva questo Tribunale evocando in giudizio la Banca C*******, in persona del legale rappresentante pro tempore, deducendo in sostanza:
- di aver intrattenuto con l' istituto bancario convenuto un rapporto contrattuale consistente in un'apertura di credito, con affidamento mediante scopertura sul conto corrente n. 5**********, originariamente finalizzata, secondo la natura tipica del contratto, a soddisfare le temporanee esigenze di elasticità di cassa;
- il rapporto prevedeva anche un servizio Carismat- Bancomat, nato nel 1985;
- che detto contratto bancario di affidamento era iniziato nel 1975 per un importo originario di L. 25.000.000 ed era tuttora in corso, ammontando il saldo passivo all'attualità a L. 30.618.209;
- che più volte l’esponente aveva cercato di comporre bonariamente la vicenda, senza esito, poiché la banca assume di vantare un credito non dovuto per l'applicazione di interessi, competenze, remunerazioni e costi non concordati o comunque non dovuti, in ogni caso superiori a quelli nominali;
- specificamente viene contestata la nullità della clausola di applicazione dell'interesse ultralegale " secondo le condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza " perchè contrastante con i requisiti di determinabilità ex art. 1346 c.c., della forma scritta richiesta ad substantiam per gli interessi ultralegali, ex art. 1284 c.c.; inoltre è nulla la clausola di applicazione dell'interesse anatocistico trimestrale, in violazione dell'art. 1283 c.c., in assenza di un uso normativo che contempli la capitalizzazione degli interessi scaduti;
- che è nulla la commissione di massimo scoperto, perchè tale addebito dove ritenersi illegittimo per violazione degli artt. 1284, 3° comma, 1325 c 1418, 2° comma c.c., consistendo in una vera e propria integrazione del tasso nominale di interesse, priva di una specifica giustificazione economico-tecnica;
- che non è previsto in contratto l'addebito dei giorni di valuta e cioè da quando la somma versata divenga effettivamente fruttifera: " in pratica la banca largheggia sui giorni delle operazioni che le fruttano interessi, mentre sottrae giorni sulle operazioni che fruttano interessi al cliente o comportano una riduzione dei suoi presunti oneri";
- che era stata illegittimamente segnalata alla Centrale Rischi presso la Banca d'Italia la situazione debitoria dell'attore come posizione " a sofferenza ", cosi operando intenzionalmente per favorire un rientro più sollecito del credito;

tanto premesso, chiedeva al Tribunale:
che fosse dichiarata la nullità o l'invalidità parziali del contratto di apertura di credito e di conto corrente in corso tra le parti, con determinazione dell'esatto dare-avere in base al ricalcolo da effettuarsi per mezzo di C.T.U. tecnico - bancaria, previa individuazione del TAEG applicabile, senza capitalizzazione, al tasso legale consentito dalla normativa antiusura con esclusione di tutte le clausole nulle, condannando all'esito la banca alla restituzione delle somme indebitamente addebitate e riscosse oltre agli interessi creditori in favore dell'odierno istante e con l'ulteriore risarcimento dei danni subiti dall'attore per l'indebita segnalazione alla Centrale dei Rischi; il tutto, con vittoria di spese e competenze.
In linea istruttoria, instava perchè fosse ordinata I'acquisizione del contratto-base, di tutti gli estratti conto, delle ricevute di versamento, delle schede della banca e di quanto altro inerente il contratto bancario impugnato, prodromico all'espletamento di C.T.U. contabile idonea.

Si costituiva l'Istituto di credito, con comparsa di risposta depositata l'11/06/2001, nella quale contestava tutte le contestazioni ex adverso e segnatamente deduceva:
- che il divieto di capitalizzazione trimestrale non è stato sancito in maniera univoca dalle recenti pronunce della Corte di Cassazione, sicché non si può parlare di un consolidato orientamento, riguardo alla negazione di validità degli usi normativi, in materia di interessi bancari, riconosciuti anche dalla motivazione delle sentenze di contrario avviso.
L'uso in questione è accreditato dalle camere di Commercio da oltre ottanta anni ed è perfettamente compatibile con il meccanismo di cui agli artt. 1283 e 1285 c.c., in riferimento alle scadenze contabili di chiusura del conto.
Inoltre, la pronuncia della Corte Costituzionale del 17/10/2000 n. 425, che ha statuito l'illegittimità dell'art. 25, comma 3°, del D. Leg.vo n. 342 del 418/1999, per eccesso di delega ( contrasto con l'art. 76 Costituzione ), ha lasciato intatto il 2° comma dell'art. 120 T.U.B., che ha attribuito al CICR il potere regolamentare sui criteri per la produzione di interessi sugli interessi.
Ancora, l’art. 8 della legge 17/02/1992, n. 154 sulla " trasparenza bancaria ", nell'indicare il contenuto della documentazione periodica che la banca deve inviare al cliente per informarlo dell'andamento del rapporto di durata nel periodo di riferimento, elenca esplicitamente quella "sulla capitalizzazione degli interessi", con ciò riconoscendone in modo univoco la legittimità.
Il D.M. Tesoro 24/4/1992 (in G.U. n. 108 dell' 11/5/1992 ), di attuazione, stabilisce con altrettanta univocità che " I tassi di interesse devono essere indicati al valore nominale ed essere riportati su base annua, con indicazione della periodicità di capitalizzazione."
Il contratto in oggetto è stato stipulato prima della riforma dell'art. 1815 c.c. e ad esso non si applicherà la nuova normativa.
Infine, la normativa di cui al D.L. 29/12/2000 n. 394, convertito nella legge n. 24 del 28/2/2001 ha legislativamente regolato la materia con interpretazione autentica del secondo comma dell'art. 1815 c. c. e dell'art. 644 c.p., cosi espressamente prevedendo:
"Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815, 2° comma c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limte stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo. indipendentemente dal loro pagamento."
Poiché il contratto è antecedente all'entrata in vigore della legge n. 108196, non si da applicazione, in ogni caso, della detta normativa.
Tanto rilevando, chiedeva che il Tribunale si pronunciasse conformemente, rigettando la domanda, con vittoria di spese e competenze di giudizio.
In linea istruttoria, depositava copia di contratto, saldoconto, estratti-conto.

In corso di causa, attesa l' incertezza della somma dovuta, era disposta, con ordinanza del 7/3/03 dal G.I., ed esperita, C.T.U. per la determinazione degli effettivi rapporti dare-avere tra le parti, ricalcolando gli interessi debitori tenendo conto del tasso-soglia a far tempo dall'entrata in vigore della legge antiusura, per il pregresso devalutando la somma dovuta, con capitalizzazione annuale ed esclusione delle commissioni non dovute.
Avvenuto il deposito della relazione peritale, il G.I. all'udienza del 18/3/2005 assegnava la causa a sentenza, con la concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., per il deposito di comparse conclusionali e repliche.

Motivazione

La domanda principale va accolta, per quanto di ragione, come di seguito esplicitato.

Trattasi di fattispecie riconducibile all'indebito oggettivo, previsto dall' art. 2033 c.c., il quale recita:
" Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha diritto inoltre ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda."
Va ancora precisato in diritto che quando, come nel caso di specie, venga in rilievo la mancanza di causa di un'obbligazione contrattuale in riferimento a qualche clausola del rapporto negoziale o la nullità anche parziale del negozio stesso, in base al quale è stato eseguito un pagamento, si fa riferimento, per le azioni di ripetizioni, all'istituto di cui all'art. 2033 c.c. e non a quello di cui all'art. 2041 c.c. (arricchimento senza causa), il quale presuppone l'assenza di un qualsivoglia contratto lecito e tutelabile.
Secondo tale disciplina è sufficiente a legittimare la ripetizione di quanto illegittimamente prestato da una parte in esecuzione di un contratto dichiarato nullo
in tutto o in parte, come nel caso di specie, in cui alcune clausole sono da dichiararsi nulle, il requisito dell'avvenuto pagamento e quello dell'inesistenza (qui parziale) del titolo in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo. Non si richiede anche - nè costituisce correlativamente impedimento a tali restituzioni - la circostanza di un arricchimento del patrimonio dell' accipiens e di una corrispondente diminuzione del patrimonio del solvens, elementi caratteristici della diversa azione di arricchimento senza causa.(cfr. Cass. Civ., Sez. I, 7/2/1975, n. 469).
Infatti, l'azione di arricchimento senza causa è del tutto complementare e può essere esercitata solo quando manchi qualunque titolo specifico, sul quale possa essere fondato il diritto preteso (e che quindi deve essere proposta in modo esplicito), per come previsto dall'art. 2042 c.c., mentre la ripetizione di indebito riguarda altra e diversa ipotesi giuridica, basata su due necessari e sufficienti requisiti: l'esistenza di un pagamento e il fatto che il pagamento stesso non doveva essere eseguito (così espressamente Cass. Civ., Sez. III, 20/5/1969, n. 1769).
Da tale prospettazione, cioè con l' inquadramento del caso concreto entro la disciplina dell'indebito oggettivo, escludente la configurabilità di un'obbligazione naturale, ex art. 2034 c.c., discende la mancata irripetibilità di quanto pagato in più dal correntista, con conseguente percorribilità dell' istruzione al riguardo.
Una datata giurisprudenza cos^ si esprimeva sulla questione: " Il pagamento spontaneo di interessi in misura ultralegale, pattuito invalidamente, costituisce adempimento di obbligazione naturale e determina l'irripetibilità della somma cosi pagata, ma I'indicato presupposto non ricorre nel caso di una banca che abbia proceduto all'addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo."
(così Cass. Civ., Sez. I, 9/4/1984, n. 2262).
Risulta evidente nel caso di specie che l'ing. D******* non ha autorizzato alcunché, ma firmando il contratto su formulario o per adesione, con la previsione degli interessi secondo la clausola "usi su piazza", illecita, riteneva di essere conforme ad una prassi contemplante interessi legali quindi senza ulteriori addebiti a suo carico.

In punto di prova, questo Giudice in funzione di istruttore ha disposto, ai sensi dell'art. 210 c.p.c., come richiestone, l'acquisizione processuale dei tabulati bancari dell'intero rapporto in contestazione, ai fini della redazione della C.T.U. e il corredo documentale offerto dalla convenuta società, del quale l'ausiliare nominato ha preso piena cognizione, costituisce iI fondamento probatorio pacifico inter partes. Peraltro, va sottolineato come la banca si sia sottratta a tale onere probatorio per il periodo antecedente al 1990, sicché il C.T.U. ha potuto esaminare solo tale documentazione, omettendo l'esame del periodo pregresso dal 1975 al 1990, del che si dovrà tenere conto in sede di rideterminazione globale del debito.

Vanno precisati, in generale, alcuni profili giuridici relativi all'efficacia processuale del contratto di conto corrente e dei relativi accessori: .

a) del saldoconto bancario.
Al riguardo si rileva innanzitutto la validità, in relazione al conto corrente bancario, del c.d. saldoconto previsto dall'art. 50 del D. L.vo n. 385/1993 (che ha modificato l’art. 102 della c.d. "legge bancaria" di cui al R.D.L. 12/3/1942 n. 375, convertito nella legge 7/3/1938 n. 141 e modificato dal R.D.L. 17/7/1937 n. 1400, convertito in legge 7/4/1938 n. 636 ) - dichiarazione unilaterale di un funzionario di banca attestante la conformità dello stesso alle scritture contabili e che il credito certo, liquido ed esigibile - quale prova della somma vantata contro un debitore in favore di un istituto di credito, ai fini della sola emissione del decreto ingiuntivo.
L'efficacia di questo documento in un giudizio ordinario, quale quello di specie, è soggetta all'onere di dimostrare gli elementi costitutivi del credito vantato. (cfr. Cass. Civ., 10/8/1990, n. 8128).
Da esso si differenzia l'estratto-conto, idoneo a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca nel giudizio contenzioso (così pacifica e costante giurisprudenza, vedasi da ultimo Cass. Civ. , Sez. I, sent. 20/8/2003, n. 12233).
Nella vicenda de qua non è stato allegato al fascicolo dell'Istituto convenuto un c.d. estratto del conto corrente, intestato a D***** S******* alla data della segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d'Italia, emesso a tenore dell'art. 50 del D.L.vo 1993 n. 385, e quindi la banca stessa non ha quantificato in misura, per lei attestabile, il reale riscontro del conto alla data di contestazione.

b) dell'efficacia dell'estratto-conto bancario
In corso di causa l'Istituto di credito ha prodotto tabulati contenenti gli estratti conto scalari relativi al conto corrente intestato all'attore.
E' ormai pacifico nell'esegesi giurisprudenziale che la mancata contestazione degli estratti conto nei termini di sei mesi dalla ricezione degli stessi, rende incontestabile la verità storica dei dati in essi riportati, lasciando pero impregiudicata ogni questione concernente la loro rilevanza giuridica, sia singolarmente sia complessivamente riguardata e la validità dei titoli posti a fondamento delle singole annotazioni (così, ex multis: Cass. Civ., Sez. I, 28/3/2002, n. 4490).
L'estratto conto bancario è un mero documento contabile nel quale e per il quale le singole operazioni ivi rappresentate, di addebitamento e di accreditamento, non danno luogo, a differenza del conto corrente ordinario, alla costituzione di autonomi rapporti di debito-credito tra il cliente e la banca.
Tali operazioni, al contrario, rappresentano l'esecuzione di un unico negozio da cui deriva il complessivo credito o debito della banca verso il correntista, ossia il saldo di conto corrente (in questo senso: Cass. Civ., 7/9/1984, n. 4788; 24/5/19991, n. 5876; 29/11/1994, n. 10185).
Quindi la mancata contestazione del correntista rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti unicamente sotto il profilo meramente contabile, ma non pregiudica la possibilità per il correntista di contestare la validità e l'efficacia dei rapporti obbligatori che hanno data luogo agli accrediti e agli addebiti (Cass. Civ., 30/5/1989, n. 2644; 24/5/1991, n. 5876; 10/4/1995, n. 6736; 23/6/1998, n. 6247).
Ha, anzi, precisato la Suprema Corte (Sezione I, sent. 11/3/1996, n. 1978), ribadendo un concetto già espresso più volte negli anni recenti che "la mancata contestazione dell'estratto conto trasmesso da una banca al suo cliente rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto quelli della validità e dell'efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano. Infatti la decadenza semestrale prevista dal secondo comma dell'art. 1832 c.c. per le contestazioni del conto da parte del cliente riguarda unicamente le impugnazioni per i motivi indicati nel comma stesso (errori di scritturazione o di calcolo), tali che, a maggior ragione, deve ritenersi inaccettabile la tesi della decadenza dalla possibilità di contestare tutte le altre poste del conto per la mancata loro impugnazione nel termine di quaranta giorni dalla comunicazione dell'estratto conto; e ciò perchè la maggior brevità del termine impedirebbe al correntista il diritto di promuovere anche quelle azioni che, per la loro pin elevata complessità, richiedono un maggior tempo di ponderazione." (cfr. per quest’ultimo concetto: Cass. Civ., 14/2/1984, n. 1112; Cass., 7/9/1984, n. 4788).
Sul punto appare irrilevante la previsione specifica, sia per il contraente sia per i fideiussori, contenuta nel contratto secondo la quale, quando siano trascorsi sessanta giorni dalla data della ricezione degli estratti conto senza che sia pervenuto all'Azienda di credito per iscritto un reclamo specificato, gli estratti-conto si intendono senz'altro approvati dal correntista, con pieno effetto riguardo a tutti gli elementi che hanno concorso a formare le risultanze del conto, per l'ordine di idee testè esposto.
Nella fattispecie concreta, quindi, sotto il profilo probatorio, la documentazione offerta dalla banca è sufficiente, dall'anno 1990, a valutare le posizioni creditorie e debitorie reciproche, poste al vaglio critico della C. T. U. contabile.

Questioni sostanziali: illegittima applicazione interessi ultralegali, anatocismo, capitalizzazione trimestrale

Sostiene l'attore che la banca abbia applicato illegittimi interessi in misura ultralegale.
Nel contratto di conto corrente intercorso tra la Banca C***** e D***** S******* del 27/10/1975 non sono previsti gli interessi dovuti dal Correntista all'Azienda di Credito, che, quindi erano determinati alle condizioni praticate usualmente dalle Aziende di Credito sulla piazza, con applicazione dello jus variandi unilaterale, nullo; il tutto, con l'ulteriore aggiunta della commissione massimo scoperto, anch'essa variabile, nonché di addebito di valute in modo punitivo.
La fattispecie ricade, con l'esclusione dei primi anni, dal luglio 1992, sotto la disciplina della Legge 17/2/1992 n. 154 sulla c.d. trasparenza bancaria, entrata in vigore appunto il 9/7/1992, che ha sancito nel suo art. 4: "i contratti devono indicare il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi gli eventuali maggiori oneri in caso di mora" mentre le clausole di rinvio agli usi "sono nulle e si considerano non apposte".
Tale contenuto normativo è stato poi recepito dall'art. 117 D. L.vo 1/9/1993, n. 385 (recante il nuovo testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) di cui l’art. 161, sesto comma, ha sostituito la disposizione in esame.
In ogni caso, circa l'applicazione retroattiva della disposizione in oggetto, così come la Corte di Cassazione con la sent. n. 204/1997 ha statuito in materia di fideiussione omnibus, l'applicabilità della nuova disciplina anche ai contratti stipulati anteriormente, con efficacia però limitata al periodo successive all'entrata in vigore delle nuove leggi; il medesimo criterio deve ritenersi applicabile alla fattispecie in oggetto.
Inoltre la Suprema Corte, per il periodo antecedente al 1992 ritiene nulle le clausole dei contratti stipulati anteriormente l'entrata in vigore della legge n. 154/1992 che, per la determinazione dei tassi, facciano riferimento agli interessi in "usi su piazza" (cfr. Cass. Civ., Sez. 1, 23/6/1998, n. 6247).
Chiarisce sul tema, come prospettiva generale, la Cassazione in una sentenza incisiva di recente emissione (Cass. Civ., Sez. I, 28/3/2002, n. 4490 nella quale vengono sintetizzati tutti gli attuali orientamenti giurisprudenziali in tema di interessi bancari) che "il requisito della forma scritta richiesto, a pena di nullità, per la pattuizione di interessi superiori alla misura legale (ex art. 1284, ultimo comma, c.c.) non postula necessariamente che il documento contrattuale contenga l'indicazione in cifre del tasso d'interesse pattuito, ma può essere soddisfatto anche per relationem, essendo sufficiente che le parti richiamino per iscritto criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, obiettivamente individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale" (cosi anche Cass. Civ., 18/5/1966, n. 4605; 11/11/1997, n. 11042; 8/5/98 n. 4696; 3/6/98, n. 6247; 19/7/2000, n. 9465).
Nel caso di specie, quindi, il requisito della forma scritta non appare soddisfatto, poichè il tasso reale, per stessa ammissione della banca, era sottoposto a variazioni, in genere maggiorative, comunicate al cliente unitamente agli estratti conto periodici, senza però che l'utente potesse interloquire sul medesimo tasso e senza un meccanismo di predeterminazione.
Pertanto il requisito della trasparenza delle condizioni praticate dalla Banca C***** non pare osservato, per carenza della determinabilità del saggio, la cui esistenza l’art. 1346 c.c. esige a priori, al punto che esso non possa essere determinato o variato successivamente; tanto più quando il saggio non sia determinato o variato da entrambe le parti, ma da una di esse, che l'abbia portato a conoscenza dell'altra, attraverso documenti che abbiano il fine di fornire l'informazione delle operazioni periodicamente contabilizzate e non anche di contenere proposte contrattuali, capaci di assumere dignità di patto in difetto di espresso dissenso (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 2/10/2003, n. 14684 che richiama la sentenza 1/2/2002 n. 1287).
Ne deriva anche l'assoluta illiceità del tasso originario e delle variazioni apportate alle condizioni iniziali.
II concetto di trasparenza applicato ai contratti bancari postula il rispetto delle norme di buona fede stabilite dagli artt. 1175, 1337, 1366, 1375 c.c., nel generale concetto di protezione del contraente debole, tutelato anche in via prioritaria dalla Direttiva CEE 93/13, art. 5 e dalla conseguente normativa sulle clausole abusive ex artt.1469 bis e quater c.p.c., introdotti dalla legge n. 52/96 in attuazione della cit. Direttiva.
Quanto al tasso applicabile, l’art. 1284 c.c. stabilisce che il saggio degli interessi legali può essere determinato annualmente in misura diversa secondo apposito decreto ministeriale.
La legge 7/3/1996 n. 108 contenente disposizioni in materia di usura stabilisce il limite entro il quale, nelle operazioni di credito, gli interessi sono sempre usurari (art. 2, secondo comma).
Il combinato disposto di queste due norme (letto alla luce della disciplina antitrust di cui alla legge n. 287 del 10/10/1990 e della gia richiamata Direttiva CEE sul credito) ha segnato un'inversione di tendenza della nozione monolitica del rapporto contrattuale bancario, il quale deve sottostare alle sopravvenute regale imperative.
Infatti, la clausola contenuta in un contratto di conto corrente stipulato anteriormente all' entrata in vigore della nuova disciplina dell'usura e con la quale sono pattuiti interessi diventati superiori a quelli della soglia dell'usura, è priva di effetto quanto alla misura degli interessi anteriormente convenuta ed essi possono essere rinegoziati (Cass. Civ., 22/4/2000, n. 5286).
Ne deriva che quando si sia verificata una situazione quale quella indicata (come nel caso in esame) i punti da sciogliere sono: l'individuazione del tasso applicabile in luogo di quello non più utilizzabile, il meccanismo per il calcolo degli interessi, nonchè il momento al quale riferire la valutazione circa il carattere usuraio degli stessi.
Non vi è dubbio che a far tempo dall'entrata in vigore della legge antiusura il tasso applicabile, per tipo di operazione, sia quello risultante dai vari decreti ministeriali trimestrali e che per il pregresso, attesa la nullità della clausola degli interessi convenzionali, come si è detto, nel caso di specie per illegittima applicazione dei generici "usi su piazza" e dello jus variandi contro il contraente debole, con abuso di posizione dominante, si debba fare applicazione del tasso legale, il quale, in favor della banca, è quello rapportato al tasso soglia, devalutato all'indietro di anno in anno (e non quello, minore, previsto dal codice civile).

Relativamente all'anatocismo trimestrale pacificamente applicato dalla Banca C***** ormai costituisce jus receptum che le clausole sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi abbiano fonte nelle c.d. Norme Bancarie uniformi, le quali non costituiscono un uso normativo, ma uso negoziale e, quindi non danno luogo al fenomeno dell'inserzione automatica del contratto ai sensi dell' art. 1374 c. c. (così Cass. Civ., 16/3/1999 n. 2374; 30/3/1999 n. 3096; 11/11/1999 n. 12507; 22/4/2000 n. 5286; 17/11/2000 n. 14899; 11/4/2002 n. 5136; 13/6/2002 n. 8442; anche per il passato esistono pronunce della Suprema Corte che mettono in discussione l'esistenza di usi normativi e soprattutto che le NBU possano costituire la fonte di tali usi: cosi Cass. Civ., 4/5/1965, n. 795; 8/5/1965 n. 864; n. 3572 del 1968; n. 3638 del 1971, la n. 1130 del 1979, n. 5815 del 15/6/1194;).
Anche la Banca d'Italia, del resto, nel Provvedimento n. 12 del 3/12/1994 ha dichiarato che le clausole nelle NBU, tra le quali quella che stabilisce l'anatocismo trimestrale, "integrano la fattispecie lesiva della concorrenza prevista dall' art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287/1990 " (e tanto si badi bene, ancor prima dell'entrata in vigore della legge antiusura, anche se il monito è rimasto del tutto inascoltato dal cartello bancario italiano).
Correttamente, quindi, l'attore postula la violazione e falsa applicazione degli artt. 1283 c.c. e 1374 c.c., in relazione agli artt. 1 e 8 Dispos. Prel. c.c. per la capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati sugli interessi.
Come noto, la questione è stata al centro di attenzione giurisprudenziale e normativa di vario tipo a cominciare dalle due sentenze quasi coeve della Suprema Corte (Cass. 16/3/1999 n. 2374 e 30/3/1999 n. 3096), nelle quali il massimo Collegio ha ribaltato un'ottica interpretativa cinquantennale appiattita sulle posizioni bancarie, dichiarando la nullità delle clausole sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, perchè basate su un uso negoziale, unilaterale da parte del contraente più forte e dunque illecito, anziché su una norma consuetudinaria, come fino a quel momento era stato ritenuto.

Si difende l'Istituto bancario sostenendo, invece, che trattasi di veri usi normativi, attestati da oltre 80 anni dalle Camere di Commercio di tutta Italia e tra l'altro codificati ben prima del 1952, nel previgente art. 1232 del C. C. del 1865, nonché nelle norme del 1929 sui conti correnti di corrispondenza.
Inoltre, la legge n. 342/1999 riconosce I'uso normativo, non solo salvando il pregresso, ma attribuendo potere normativo al CICR di dettare una disciplina sugli interessi, sicchè la disciplina legislativa e regolamentare ha riconosciuto e recepito la capitalizzazione trimestrale, che in materia di conto corrente non deve essere intesa come anatocismo.
Orbene, risponde al vero che l'art. 1232 del codice del 1865 prevedesse l'anatocismo e lo consentisse, ma a due condizioni: che gli interessi capitalizzati fossero scaduti e che rappresentassero almeno un'annualità.
lnoltre, il contratto di conto corrente sino al 1942 era regolato dal Codice del Commercio, agli artt. 346 e 347: la regolamentazione del contro corrente bancario nasceva dal combinato disposto delle due normative.
Aggiungasi che l'istituto dell'apertura di credito è recente, datandosi lo stesso in Italia all'inizio del XX secolo, mentre la sua prima codificazione nota è quella del Codice Cileno del 1886.
La dottrina contemporanea, infatti, non riporta segnale alcuno di sedimentazione di usi normativi sino al 1919, anno della prima codificazione dell'Accordo interbancario.
Concetto fondamentale per radicare la capitalizzazione degli interessi è la periodicità della chiusura del conto, la quale, secondo il nostro Codice del Commercio del 1883, disponeva la liquidazione del conto secondo la convenzione, gli usi o, in difetto, alla fine di dicembre di ogni anno.
Vi è la certezza della chiusura del conto annuale ope legis, mentre non sono registrati usi commerciali certi circa la chiusura periodica del conto corrente.
Nel Regolamento Interbancario del 1919, invece, si legge che "concorrono pure al regolamento giuridico del rapporti bancari gli usi commerciali" e negli Accertamenti camerali delle consuetudini ed usi provinciali, emerge che non vi è uso di capitalizzazione degli interessi che sia stato rilevato prima del 1942.
In proposito la sentenza n. 2374 del 16/3/1999 così si è espressa analiticamente:
"Non è stata accertata dalla commissione speciale permanente presso il Ministero dell'Industria, ai sensi del D.L.vo c.p.c. 27/1/1947 n. 152, modificato con la legge 13/3/1950, n. 115 l'esistenza di un uso normativo generale corrispondente alla clausola dell'anatocismo. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata".
Per quanto riguarda, inoltre l'accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di Commercio provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39, 40 R. D. 20/9/1934 n. 2011 e dell'art. 2 d. leg. lgt. 21/9/1944 n. 315, deve rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude in concreto che possa essere attribuita all'indicata clausola delle Nome Uniformi Bancarie in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi locali preesistenti.
Peraltro, la presunzione derivante dall'inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all'art. 9 preleggi C.C. riguarda l'esistenza e non anche la natura, normativa o negoziale degli usi potendo al massimo ritenersi che si tratti di clausole d' uso ai sensi dell'art. 1340 c.c.
A conferma della fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella raccolta degli usi bancari curata dalla camera di commercio di Firenze, edizione del 1960, l'uso relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente è espressamente definito come uso negoziale."
E' allora intervenuto il legislatore con il c.d. decreto salvabanche (D. L.vo 4/8/1999 n. 342), stabilendo all'art. 25 da un lato che le nuove modalità e i criteri per la capitalizzazione degli interessi sarebbero stati fissati con delibera del Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio, assicurando in ogni caso la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori (art. 25 secondo comma) e dall'altro che le clausole stipulate prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina sarebbero state valide ed efficaci sino a tale data (art. 25 terzo comma).
Quest'ultima disposizione veniva però dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 425 del 17/10/2000 perchè viziata per eccesso di delega.
Essa si pone inoltre in palese contrasto con gli artt. 3 lett. g ), 10, 81, 82 e 86 del Trattato che istituisce la Comunità Europea nonché la Direttiva Cee 5/4/1993 sulle norme a tutela del consumatore, in quanto la clausola anatocistica si colloca in violazione delle norme antitrust e di trasparenza che costituiscono un vero e proprio obbligo legale generale per tutti gli stati aderenti.
La norma dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia (e quindi non può più essere applicata) dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (art. 136, primo comma, Cost.).
Il venir meno di tale norma, eliminando l'eccezionale salvezza della validità e degli effetti delle clausole già stipulate, lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore della norma anteriormente vigente, alla stregua della quale, come si è detto, esse non possono che essere dichiarata nulle, perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c.
Completando l'excursus storico-giuridico in argomento, va detto che un'opinione interpretativa di giudici di merito vorrebbe non applicabile la disciplina dell'art. 1283 c.c. ai contralti di conto corrente bancario per il disposto degli artt. 1831, 1825 e 1823 c.c., in base ai quali la differente disciplina promanerebbe dalla circostanza della chiusura periodica del conto, in genere trimestrale o semestrale, che legittimerebbe la capitalizzazione.
Tale impostazione è stata espressamente censurata dalla pronuncia della Corte di Cassazione del 21/10/2002 n. 14091, la quale ha cosi statuito sul punto:
"Un patto anatocistico preventivo non può ritenersi legittimato dalla applicabilità degli artt. 1823, 1825 e 1831 c.c. anche al conto corrente bancario. Chè, anzi, al conto corrente bancario resta applicabile la disciplina dell'art. 1283 c.c., mentre ad esso non è applicabile, in quanto non richiamata dall'art. 1857 c.c., la disciplina del conto corrente ordinario, secondo la quale ex artt. 1831 e 1825 c.c., gli interessi vengono liquidati ad ogni chiusura del conto e la relativa capitalizzazione inserita nella liquidazione del saldo."
Il divieto di anatocismo vale a livello generate, qualunque sia l'intervallo di tempo considerato, con il risultato che sono anatocistici anche gli interessi capitalizzati annualmente, il che implicherebbe un conteggio depurato totalmente degli interessi, da calcolarsi a parte senza capitalizzazione, con il computo dell'interesse semplice.
Quanto sopra vale anche per gli interessi di mora dopo la chiusura del conto.
Si osserva, poi, come la legge n. 24/2001 di conversione del d.l. 29/12/2000 n. 394, c.d. di "Interpretazione autentica della legge 7/3/92 n. 108, recante disposizioni in materia di usura" è universalmente considerata applicabile solo ai mutui a tasso fisso e quindi non appare rilevante nella ipotesi di specie.
In realtà al C.T.U. si è posto il quesito del calcolo del dovuto con la capitalizzazione annua, ad analogia di quanto disposto dall'art. 1284 c.c. e secondo gli indici di rivalutazione Istat che sono sempre su base annua, il che, però, a rigore logico, costituisce un favor per la banca.

Della violazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto.
Il diniego della banca di addivenire ad una composizione bonaria della vicenda e soprattutto, la mancata produzione dei tabulati in suo possesso per il periodo antecedente il 1992, quello nel quale è verosimile siano maggiormente lievitati gli interessi, appare contrario ai principi di buona fede nell'esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. anche in riferimento alle norme poste a presidio dell'istituto del mandato al quale deve conformarsi la banca.
Del pari, del tutto contrario alla correttezza nel sinallagma contrattuale, è stata la segnalazione alla Centrale Rischio, in pendenza del rapporto, quando verosimilmente, non erano mutate le condizioni personali e patrimoniali dell' ing. D**** e non essendo integrata nessuna delle condizioni che legittimano l'allarme medesimo, secondo le stesse istruzioni della Banca d'Italia e le norme regolamentari interne anche a ciascun istituto di credito.
Sul punto, la convenuta non si è sostanzialmente difesa, evidentemente arrogandosi la pretesa di attivarsi in qualunque momento, al di fuori della verifica di ogni presupposto del protocollo applicativo.
Il detto comportamento assume una connotazione gravissima e dal punto di vista della dinamica del contratto, valendo come elemento di ritorsione contro la richiesta di chiarificazione degli addebiti da parte del correntista e per quel che concerne la possibilità dell'attore di accedere al credito, preclusagli presso qualunque banca, in conseguenza di tale segnalazione.
Non vi è dubbio che questa condotta, contrattualmente scorretta, possa essere generatrice di un danno risarcibile, per come è stato richiesto e che potrà essere liquidato in via equitativa.

Anche la questione della difforme ed incontrollata computazione della valuta, a seconda che sia a credito o a debito per la banca costituisce senz'altro argomento valido di sostanziale contestazione del finale saldoconto bancario, ma non si è potuto tradurla in un apposito quesito al CTU per la complessità dell'accertamento a distanza di tanti anni e comunque anche di questo potrà tenersi conto in sede di quantificazione definitiva del debito.

d) Altre questioni rilevabili di ufficio
Invero, si ravvisano nel contratto anche altre clausole nulle, quali la commissione di massimo scoperto, con un costo aggiuntivo non previsto in alcuna disposizione di legge; essa è, secondo l'accezione data dalla Banca D'Italia, il corrispettivo per una prestazione effettuata dalla banca erogatrice del credito. Tale prestazione consisterebbe nel tenere a disposizione del cliente una certa giacenza liquida per potergli permettere in qualsiasi momento l'intero utilizzo del fido. Questo impegno si tradurrebbe in maggiori costi della gestione della tesoreria, a compenso dei quali le banche richiedono la corresponsione della commissione di massimo scoperto.
Quindi tale clausola non costituirebbe un interesse in senso proprio e secondo qualche autore esperto di legislazione bancaria, perciò sfuggirebbe al divieto di anatocismo: la Banca D'Italia ha ritenuto che la voce non rientra nel calcolo del TEG (tasso effettivo globale) ed ha ritenuto di pubblicarla a parte.
In verità, tale opzione è determinata da necessità del tutto diverse, relative alle differenti modalità di calcolo della commissione di massimo scoperto rispetto agli interessi.
Se, infatti, si rilevasse la commissione sul massimo scoperto come un interesse anche nei conti correnti che sono esposti per periodi di pochi giorni, si otterrebbero dei risultati aberranti che porterebbero a considerare usuraie anche piccole somme percepite come commissione sul massimo scoperto.
Va rilevato che l'indicazione sui contratti bancari, come nell'ipotesi specifica, della mera percentuale di calcolo non appare sufficiente a soddisfare il requisito della determinabilità a priori richiesto dall'art. 1346 c.c.; infatti, la banca non chiarisce se per massimo scoperto si debba intendersi il debito massimo che il conto corrente raggiunge anche per un solo giorno o quello che duri almeno dieci giorni, oppure sull'importo generate dei prelevamenti o altro ancora.
Ne consegue la nullità di detta clausola; anche sotto il profilo della illiceità della causa essa non trova valida giustificazione in chi vorrebbe spiegarla come il pagamento per il maggior rischio che la banca si assume in proporzione all'ammontare dell'utilizzo, se così fosse, essa non dovrebbe insistere sulla punta massima di scopertura ma dovrebbe parametrarsi ad ogni singola variazione in più o in meno e per la durata medesima.
Inoltre, l'incidenza dovuta all'incremento del rischio dovrebbe già essere calcolata in partenza, al momento della concessione del fido e dovrebbe essere progressiva, mentre non lo è.
Last, but not least, la commissione sul Massimo scoperto non può essere considerata nè un interesse, appunto, nè un accessorio dell'interesse, in quanto, se "l'interesse compensativo è - come enuncia l’art. 820 c.c., 3° c. - il corrispettivo del godimento del denaro altrui, esso non può che far riferimento giorno per giorno (vedi art. 821, 3° comma c.c.) al capitale effettivamente prestato dalla banca al cliente.
Dunque, detta clausola è da considerarsi nulla, come ritenuto anche dal Trib. di Milano nella sent. 4/7/2000, confermata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che aderisce pienamente all'impostazione sostanzialmente anatocistica, e quindi vietata con nullità assoluta, della commissione massimo scoperto.

Esame della C.T.U. e quantificazione finale del dovuto.
L'ausiliare del Giudice ha risposto correttamente ai quesiti postigli, che sono del seguente tenore, a puntuale esplicazione dei principi di diritto e delle interpretazioni giurisprudenziali oggi conclamate:
"1) Ricostruisca dal suo sorgere i rapporti dare-avere tra le parti al fine di quantificare il saldo effettivo, con applicazione:
a) come saggio di interesse del tasso soglia a far tempo dall'entrata in vigore della legge n. 108/96 e a ritroso del tasso devalutato annualmente sino al 1975;
b) di capitalizzazione analitica annuale;
c) con esclusione della clausola di massimo scoperto e di ogni altra nulla;
d) con imputazione dei pagamenti prima agli interessi e poi al capitale;
2) Ogni altro elemento utile."
La banca opposta non ha proposto censure specifiche all'elaborato che ne è risultato.
Il dott. Di Vito ha, infatti, applicato i tassi debitori applicati dalla banca solo quando erano inferiori al tasso soglia, per il resto sostituendo tale saggio, come determinato trimestralmente dai D.M.; per il periodo pregresso all'entrata in vigore della legge antiusura si è adottato il criterio del tasso soglia devalutato a ritroso annualmente, secondo gli indici Istat, applicando un principio giurisprudenziale di larga utilizzazione nelle ipotesi risarcitorie.
Il dato sembra al giudicante assai pertinente e maggiormente rispondente ai meccanismi di mercato effettivi rispetto al tasso legale, consentendo una remunerazione del costo del denaro che tiene conto effettivo, ma con un metodo di calcolo predeterminato, delle variazioni dei tassi.
Quando al rilievo possibile che il contratto in oggetto è stato stipulato prima dell'entrata in vigore della legge antiusura e ne sarebbe quindi svincolato, sono intervenute puntuali pronunce delle Cassazione (Sez. III, sent, 2/2/2000, n. 1126; Sez. I, 2/4/2000, n. 5286; Sez. I, 17/11/2000, n. 14899) che hanno statuito l'applicabilità della legge n. 108/96 alla regolamentazione di rapporti con effetti ancora in corso, ancorchè sottoscritti precedenternente, stabilendo anche l'assoluta omogeneità di trattamento ai fini specifici degli interessi corrispettivi e moratori, poichè "il ritardo colpevole non giustifica di per sè il permanere della validità di un'obbligazione cosi onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge".
Il richiamo effettuato dalla sentenza è sempre alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 204/97 in tema di fideiussioni, che rigettava la concezione rigida del contratto, impermeabile alle innovazioni legislative.
Il risultato logico finale che ne consegue è, ancora una volta, la possibilità di sostituire clausole contrattuali divenute illecite, per legge sopravvenuta, con clausole rispondenti alla nuova disciplina.

In termini numerici ne è scaturito un conteggio, in effetti diminutivo rispetto a quanto calcolato dalla banca alla data di proposizione dell'atto di citazione (maggio 2001), cioe pari a L. 28.479.887 (con una differenza di L. 2.387.170) che, però, va ulteriormente decurtato di almeno lire 2.000.000 stabiliti in via equitativa, per il periodo a ritroso dal 1975 al 1990, lasso temporale che non è stato preso in considerazione dal CTU, il quale, inoltre non ha potuto considerare la problematica dei momenti di appostazione sul conto corrente delle valute. Per detto aspetto, nonchè per le commissioni di massimo scoperto nel periodo pregresso rispetto a quello considerato dal Dott. Di Vito, dal 1975 al 1990, può riconoscersi un ulteriore dimininuzione di lire 500.000, così pervenendosi ad un debito di lire 25.979.887 (lire 28.479.887 - lire 2.500.000 - lire 500.000), il tutto da riconvertirsi in euro e da riconoscersi alla data di maggio 2001.
Per i comportamenti che violano le regole di correttezza nell'esecuzione dei contratti, come sopra esplicitate, e segnatamente per la segnalazione illegittima alla Centrale dei Rischi della Banca d'Italia, compete all'ing. D***** un risarcimento dei danni, ragguagliato alla mancata liquidità che lo stesso avrebbe potuto conseguire presso un altro istituto di credito per sanare lo scoperto con l banca e, quindi, definibile in euro 12.500,00.
Le spese processuali, ivi comprese quelle della CTU come separatamente liquidate, vanno poste a carico della banca, totalmente soccombente e si liquidano in complessivi euro 3.350,00, di cui euro 250,00 per esborsi, euro 2.000,00 per onorario ed il resto per diritti, oltre IVA, CAP e spese generali come per legge.
La presente sentenza è immediatamente esecutiva per legge.

PQM

definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da D***** S****** contro la BANCA C********, in persona del legale rappresentante pro tempore, con atto di citazione notificato il 28 aprile 2001, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così provvede:
1) ACCOGLIE la domanda, per l'effetto dichiarando che il debito da parte dell'Ing. D****** nei confronti della Banca CARIME Spa, in relazione al contratto di conto corrente di cui, all'oggetto è pari a lire 25.979.887 - ed oggi il rispondente in euro - alla data del maggio 2001;
2) CONDANNA, altresì, la Banca C****** al risarcimento dei danni patrimoniali per scorretto comportamento contrattuale, liquidati in complessive euro 12.500,00;
3) CONDANNA la Banca convenuta al pagamento delle spese processuali, ivi comprese quelle di CTU, queste ultime come separatamente liquidate, determinate in complessive euro 3.550,00 oltre IVA, CAP e spese generali come per legge, di cui euro 250,00 per esborsi di lite, euro 1.100,00 per diritti ed il resto per onorario, ponendole a carico della banca opposta.
Così deciso in Vibo Valentia il 28 settembre 2005
Il Giudice Unico
Dott. PASQUIN Patrizia
Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2006
Il Cancelliere Dott. Giglietta


 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.