RIDUZIONE DEL NUMERO DEI PARLAMENTARI:
UNA RIFORMA COSTITUZIONALE OLIGARCHICA



Saggio breve a cura dell’Avv. Giuseppe PALMA


INDICE

Premessa
- Primo aspetto di criticità:
IL RISCHIO OLIGARCHICO

- Secondo aspetto di criticità:
L’ASSENZA DI ADEGUATI CONTRAPPESI ISTITUZIONALI

- Terzo aspetto di criticità:
UN’OCCASIONE MANCATA PER DEBELLARE IL VINCOLO ESTERNO

Conclusioni
Appendice


PREMESSA

Martedì 8 ottobre 2019 la Camera dei deputati voterà in seconda deliberazione, quella definitiva, il ddl di revisione costituzionale che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, riducendo da 630 a 400 il numero dei deputati e da 315 a 200 quello dei senatori (elettivi), oltre che da 12 ad 8 e da 6 a 4 rispettivamente i deputati e i senatori eletti nella circoscrizione Estero. Il Senato della Repubblica aveva approvato il ddl in seconda deliberazione nel mese di luglio, con i voti favorevoli di M5S, Lega e Fratelli d’Italia. Il Partito democratico, che aveva espresso voto contrario in tutti i precedenti passaggi parlamentari, ora voterà invece a favore per il sol fatto di essere andato al governo del Paese col M5S. Tralasciando le questioni politiche, che meritano certamente un approfondimento ma che in questa sede non interessano, vediamo gli aspetti di criticità prettamente giuridici.

1) Primo aspetto di criticità:
IL RISCHIO OLIGARCHICO


Una revisione costituzionale che, rispetto all’attuale architettura istituzionale, riduce di 230 il numero dei deputati e di 115 quello dei senatori (in totale 345 parlamentari), crea un problema di rappresentanza democratica. Oggi l’Italia conta 60.376.408 abitanti, quindi, a Costituzione vigente (in territorio nazionale vengono eletti, al netto della circoscrizione Estero, 618 deputati e 309 senatori), abbiamo in media un deputato ogni 97.696 abitanti e un senatore ogni 195.393 abitanti. Un perimetro di rappresentanza equa, così com’era nelle intenzioni dei Padri costituenti che decisero la composizione numerica delle camere. Con la riforma costituzionale che verrà votata in via definitiva a Montecitorio martedì 8 ottobre, i deputati e i senatori eletti in Italia saranno rispettivamente 392 e 196 (al netto di quelli eletti nella circoscrizione Estero). Ciò vuol dire che avremo un deputato ogni 154.021 abitanti e un senatore ogni 308.042 abitanti. Sarà dunque molto più difficile, per ciascun deputato e senatore, fare gli interessi dei cittadini residenti nel collegio o nella circoscrizione elettorale in cui risulteranno eletti. Ciò comporterà uno scollamento sostanziale tra rappresentanti e rappresentati, infatti un grosso bacino di elettori resterà al di fuori dello “spazio democratico”, dove per democrazia – in questo caso - si intende l’impegno da parte di ciascun parlamentare eletto di fare gli interessi (generali e particolari) di coloro che risiedono nel collegio o nella circoscrizione d’elezione. Ciò produrrà, col tempo, un sistema di rappresentanza oligarchica, soprattutto se le leggi elettorali che si susseguiranno nel tempo non consentiranno l’elezione diretta di deputati e senatori (esempio: listini bloccati, capilista già indicati sulla scheda elettorale e quant’altro). In tal caso, se le leggi elettorali prevedessero i cosiddetti “nominati” (l’attuale Rosatellum prevede che quasi i 2/3 di deputati e senatori siano eletti col sistema proporzionale a listini bloccati, cioè senza la possibilità per gli elettori di esprimere le preferenze per i candidati), questa revisione costituzionale instaurerà una vera e propria forma di rappresentanza (e conseguentemente di governo) di tipologia oligarchica. Non a caso una siffatta riduzione numerica somiglia, guarda caso, al piano di rinascita democratica della Loggia massonica P2 di Licio Gelli, il quale prevedeva - tra le altre cose - proprio la riduzione del numero dei parlamentari nella seguente misura: da 630 a 450 deputati e da 315 a 250 senatori, numeri addirittura superiori rispetto al ddl che l’aula di Montecitorio si appresta a votare l’8 ottobre in via definitiva. In pratica una democrazia rappresentativa di facciata, dove non viene soppresso né il diritto di voto né la libertà delle elezioni, bensì gli esiti sostanziali del voto, sottraendo al popolo sovrano il diritto costituzionale di autodeterminarsi ed incidere – attraverso i suoi rappresentati – nelle decisioni della Repubblica. Ma v’è di più. La composizione numerica della Camera dei deputati a 400 membri, così come previsto dalla riforma, è la medesima del periodo fascista 1929-1939, dove tra l’altro la popolazione residente era di gran lunga inferiore a quella attuale. E’ evidente, da un mero calcolo matematico, come lo spazio di rappresentatività parlamentare in termini proporzionali in rapporto con la popolazione residente, fosse molto più ampio nel decennio 1929-1939 rispetto a quello che creerebbe la riduzione del numero dei parlamentari approntato dalla riforma. Un aspetto che deve far riflettere. Sacrificare la composizione numerica delle camere elettive, giustificandola con un generico risparmio in termini economici, è a dir poco aberrante, tanto giuridicamente quanto dal punto di vista della morale politica.


2) Secondo aspetto di criticità:
L’ASSENZA DI ADEGUATI CONTRAPPESI ISTITUZIONALI


Per onestà intellettuale occorre tuttavia precisare che non è in alcun modo provato che la democrazia funzioni meglio quando il popolo ha più rappresentanti - negli Usa ad esempio il Congresso è composto da appena 435 deputati e 100 senatori -, ma è altrettanto vero che negli Stati Uniti d’America esiste una forma di Stato repubblicana presidenziale di tipo federale, dove ogni Stato membro ha ampi poteri su determinate materie in merito alle quali lo Stato federale non ha alcuna competenza; un federalismo strutturale che garantisce largamente la partecipazione dei territori (e dunque delle popolazioni ivi residenti) alle decisioni della Repubblica, in tutti i suoi aspetti e diramazioni. Ma non solo. Negli Usa tutti i cittadini degli Stati membri eleggono direttamente il Presidente della Repubblica attraverso il sistema dei “grandi elettori”, pertanto ogni Stato membro ha un peso specifico molto importante che incide notevolmente nella designazione (e successivamente nell’elezione) del Capo dello Stato, che negli Stati Uniti è anche capo del governo. In Italia, di contro, le Regioni non godono dello stesso grado di autonomia di cui invece godono gli Stati federati in America, quindi la riduzione del numero dei parlamentari a livello nazionale comporterà una ineludibile restrizione – ancora – dello spazio di rappresentatività democratica. Per di più, mancando nel nostro Paese l’elezione diretta del Capo dello Stato, un ridimensionamento numerico di quasi il 40% del numero dei parlamentari aumenta la contrazione del principio di rappresentatività democratica, aspetto accentuato da una cattiva interpretazione – soprattutto in tempi recenti - della forma di governo parlamentare. Un ddl di revisione costituzionale che in un colpo solo riduce di ben 345 il numero dei parlamentari, senza prevedere idonei contrappesi (come ad esempio le autonomie regionali, l’elezione diretta del Capo dello Stato e una legge elettorale che consenta l’elezione diretta da parte del popolo di tutti i suoi rappresentanti), svilisce in modo considerevole l’impianto costituzionale originario che disegnava l’architrave istituzionale nella forma di una democrazia rappresentativa e pluralista. V’è di più. La riduzione del numero dei senatori da 315 a 200 (196 elettivi), considerato che l’art. 57 della Costituzione prevede che "Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale", comporta un grave problema di rappresentatività a Palazzo Madama: l’attuale legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum, prevede per le singole liste una soglia di sbarramento del 3% a livello nazionale sia per la Camera che per il Senato, con la particolarità che per Palazzo Madama l’attribuzione dei seggi – come sopra evidenziato - avviene su base regionale, quindi a partire dalle liste più votate. Giocoforza, vista la considerevole riduzione del numero dei senatori, l’attribuzione dei seggi avverrà per le sole liste in grado di ottenere su base regionale non meno del 10-15% dei voti circa. Una “contrazione” di democrazia, allo stato attuale, a dir poco inaccettabile. In tal modo le liste minori non avranno accesso all’interno del Senato della Repubblica, non godranno nemmeno del cosiddetto “diritto di tribuna”, e ciò sacrificherà il diritto di milioni di cittadini a vedersi rappresentati a Palazzo Madama.

3) Terzo aspetto di criticità:
UN’OCCASIONE MANCATA PER DEBELLARE IL VINCOLO ESTERNO


E’ davvero la riduzione del numero dei parlamentari la riforma costituzionale che serviva al Paese? La risposta presuppone delle analisi a monte. Va evidenziato che la Costituzione necessita anzitutto di una importante revisione nel campo del vincolo esterno, cioè è indispensabile – perché si dia attuazione sostanziale ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale – debellare le due modifiche intervenute alla Carta costituzionale nel 2001 e nel 2012. Nel primo caso, attraverso la riforma dell’art. 117 della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 2001), fu sottomessa la potestà legislativa della Repubblica (Stato e Regioni) all’ordinamento comunitario: "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", mentre nel secondo caso, attraverso la revisione degli articoli 81, 97, 117 e 119 del¬la Carta (legge costituzionale n. 1 del 2012), fu costituzionalizzato il vincolo del pareggio di bilancio impostoci dalla sovrastruttura europea, cioè – in altre parole – è entrata in Costituzione la dottrina economica liberista che collide aspramente, e in modo parecchio evidente, con l’impianto keynesiano della Costituzione primigenia e con l’obbligo da parte della Repubblica, ai sensi dell’art. 3 della Carta, di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Una revisione costituzionale che intenda dare concreta attuazione al principio supremo della "sovranità popolare" di cui al secondo comma dell’art. 1 della Costituzione, deve dunque anzitutto debellare il vincolo esterno introdotto con le revisioni costituzionali del 2001 e del 2012. Nulla di tutto ciò è stato fatto, quindi quella che la Camera dei deputati si accinge a votare in seconda deliberazione martedì 8 ottobre è una riforma parziale e dannosa. La proposta di riduzione del numero dei parlamentari sarebbe stata invece accettabile, almeno in linea teorica, se fosse stata parallelamente accompagnata dal recupero di uno spazio vitale di "sovranità costituzionale" attraverso l’abrogazione del vincolo esterno. In tal modo, pur riducendosi lo spazio di rappresentatività democratica, la Repubblica avrebbe quantomeno ripreso nelle proprie mani – seppur parzialmente - le leve della sovranità legislativa ed economica in ossequio al principio cardine del nostro ordinamento costituzionale secondo cui «la sovranità appartiene al popolo». Uno dei più gravi errori concettuali commessi dall’attuale classe politica del Paese è proprio quello di ritenere sovrano il Parlamento, ma non è così: il Parlamento si limita ad esercitare la sovranità che appartiene, promana e risiede (sempre!) nel popolo.

CONCLUSIONI

Il ddl di revisione costituzionale che verrà sottoposto in seconda deliberazione martedì 8 ottobre al voto della Camera dei deputati (attualmente identificato al num. C. 1585-B cost.), come sopra precisato, è già stato approvato in seconda deliberazione dal Senato della Repubblica a maggioranza dei suoi componenti. Stando al dettato di cui all’art. 138 della Costituzione che disciplina la procedura “aggravata” di revisione costituzionale, perché non si proceda a referendum popolare confermativo è necessario che le leggi costituzionali e di revisione costituzionale siano approvate in seconda deliberazione a maggioranza dei 2/3 dei componenti da parte di entrambe le Camere. Ciò detto, qualunque fosse l’esito numerico della votazione a Montecitorio, se approvato, il ddl di revisione costituzionale dovrà essere sottoposto a referendum confermativo qualora entro tre mesi ne facciano richiesta 500.000 elettori, 5 Consigli regionali ovvero 1/5 dei componenti di una delle due camere.
Gli aspetti di criticità della riforma, ut supra argomentati, possono dunque riassumersi in tre punti: il rischio oligarchico, l’assenza di adeguati contrappesi istituzionali e la mancata occasione di debellare il vincolo esterno dalla Carta.
Tutto ciò premesso, a conclusione del presente saggio breve e viste le ragioni giuridiche, tecniche e costituzionali sinora evidenziate, il parere di chi scrive in merito al ddl di revisione costituzionale in oggetto è da considerarsi negativo.

Avv. Giuseppe PALMA
del foro di Brindisi



APPENDICE

Il testo dell’art. 138 della Costituzione:

"Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti".


§§§

L’entrata in vigore della riforma, fatte salve le previsioni di cui al secondo comma dell’art. 138 della Costituzione, è disciplinata dall’art. 4 del medesimo ddl di revisione costituzionale:

"Le disposizioni di cui agli articoli 56 e 57 della Costituzione, come modificati dagli articoli 1 e 2 della presente legge costituzionale, si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore".


Avv. Giuseppe PALMA
del foro di Brindisi

(Si ringrazia il prof. Paolo Becchi, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Genova, per la collaborazione nella elaborazione intellettuale di alcune parti del presente saggio giuridico)

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