Nota tecnica
La sentenza 11674/2016 (che nasce dalla applicazione di un provvedimento cautelare di sequestro su beni di una persona fisica al fine della successiva confisca) tocca numerosi aspetti importanti e complessi del diritto tributario “sostanziale”; diritto tributario sostanziale significa che la sentenza della Cassazione prende in considerazione le norme che costituiscono il substrato della fattispecie oggetto del giudizio penale ed alla luce di questo fatto ci pare di interesse mettere in evidenza come il “doppio binario”, ovvero la indipendenza formalmente completa del procedimento penale e di quello tributario, trovi proprio in questa sentenza una conferma importante che richiede qualche riflessione in ragione delle conseguenze patrimoniali (oltre a quelle personali) nascenti da una condanna penale o da un patteggiamento.
Il rischio che vediamo è quello del giudice penale chiamato a decidere di tutto, diventando un giudice sostanzialmente omnisciente con il trasferimento nell’aula penale di quelle che sono le competenze delle Commissioni Tributarie. Per quanto ci consta la sentenza non ha avuto grandi commenti da parte della dottrina e quindi le nostre note preliminari (scritte da due “fiscalisti”) vogliono essere una spinta in questo senso.

La fattispecie e le norme coinvolte
In estrema sintesi parliamo della applicazione del regime opzionale del consolidato fiscale nazionale (che in sostanza consente una somma algebrica degli imponibili delle società che aderiscono a questo regime) tra una società estera (qualificata come non residente ai fini fiscali) ed una società italiana (controllata questa dal soggetto non residente), situazione che viene contestata dalla Amministrazione finanziaria, pur in presenza di: a) una presunzione a favore del contribuente sulla residenza del soggetto estero; e b) di una stabile organizzazione in Italia dello stesso soggetto estero, e che porta alla formulazione di una imputazione di reato per dichiarazione infedele (il famoso articolo 4 della normativa penale tributaria) con il conseguente provvedimento cautelare sui beni della persona fisica.

Prima di stabilire la non applicazione di questo corpo di norme opzionali si deve dare conto (ed il PM deve provare in modo efficace) che uno dei soggetti è 1) residente fiscale all’estero; 2) privo di stabile organizzazione in Italia nel senso voluto dalla norma in tema di consolidato fiscale.
Solo provando in modo efficace tutti questi fatti sussiste un elemento per dire che il consolidato fiscale nazionale non può trovare applicazione e quindi che eventuali somme algebriche di imponibili (o perdite) non potevano essere poste in essere.
La sentenza che qui si commenta ha due elementi da considerare in quanto la stessa: 1) ha avuto cura di ribadire che nell’ambito dei precedenti gradi di giudizio (deputati anche all’esame del fatto) sono emersi elementi che consentono di ritenere che la società estera non esercitasse una attività in Italia tale da potersi configurare come attività di impresa nel senso previsto dall’articolo 117 comma 2 del TUIR e quindi come una attività che consente di aderire al regime del consolidato fiscale; 2) non ha discusso in modo esplicito del punto concernente la residenza fiscale della società estera controllante che è un punto preliminare e fondamentale per risolvere la fattispecie.

L’importanza dei punti riportati in precedenza
Le tematiche lasciate (ma diciamo pure abbandonate) al giudizio del giudice penale sono di estrema importanza e cominciamo da quella di cui al punto (2) del paragrafo che precede.

La residenza fiscale
La soluzione, in forma definitiva e indiscutibile, del tema della residenza fiscale è essenziale nel caso di specie in quanto, se la società estera fosse da considerare come residente fiscale in Italia, la stessa non avrebbe bisogno di alcuna condizione ulteriore per l’adesione al consolidato fiscale.
Possiamo dire, senza tema di smentita, che essa quale residente fiscale non avrebbe bisogno di svolgere quella attività di cui all’articolo 117 comma 2 del Tuir e della quale parleremo in seguito in quanto anche come Holding svolgerebbe una attività di impresa.
Su questo punto essenziale della residenza fiscale la Cassazione glissa e non fa cenno alcuno circa le decisioni assunte dai giudici di grado inferiore che, evidentemente, devono essere state sfavorevoli per il contribuente e si dovrebbe capire la ragione di questa contrarietà.
Restando ancorati alla materia fiscale diciamo che il giudice penale è stato chiamato a occuparsi di interpretare quella che è la norma di riferimento in materia di residenza fiscale ovvero l’articolo 73 comma 5 bis del TUIR.
Questa norma indica con chiarezza che, salva la prova contraria, si considerano residenti fiscali in Italia, in quanto si presume qui esistente la sede della amministrazione, i soggetti che detengono partecipazioni in società fiscalmente residenti in Italia quando (alternativamente) questi soggetti: a) sono controllati da soggetti qualificati come residenti fiscali in Italia (1); b) hanno una maggioranza di amministratori residenti fiscali in Italia (2).

In queste situazioni il soggetto estero si considera residente fiscale in Italia e la finalità della norma è proprio quella di colpire la esterovestizione (ovvero il fenomeno della falsa residenza in uno Stato estero) sicché la Agenzia delle Entrate ha chiarito che, in presenza di queste fattispecie, sorge una inversione dell’onere della prova (non è la Amministrazione Finanziaria che deve provare la residenza fiscale in Italia ma il contribuente che deve provare la sua residenza fiscale all’estero).
Quanto agli effetti del comma 5 bis è sempre la stessa Agenzia delle Entrate che ha chiarito che la società esterovestita si considera ad ogni effetto un soggetto residente fiscale in Italia e quindi siamo di fronte ad una entità che è soggetta a tutti gli obblighi, siano essi formali o sostanziali, che nascono da questa condizione (3).

Ma vi è di più in quanto si è giunti alla conclusione che, considerato che il soggetto estero diviene a tutti gli effetti un soggetto qualificato come residente fiscale in Italia, si ritiene che lo stesso possa anche avvalersi dei regimi opzionali previsti dal nostro ordinamento tributario ed in questo senso pare militare anche una posizione ufficiale della Amministrazione Finanziaria (4).

Guardando al testo della sentenza che afferma l’assenza di una operatività nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 117 del TUIR il primo punto - residenza fiscale con tutta la sua complessità - appare completamente superato.
Non è dato sapere come le sentenze precedenti rispetto a quella della Cassazione abbiano vinto questa presunzione (relativa) ma questo è un fatto che per forza deve aver trovato una soluzione definitiva e deve averla trovata in senso contrario alla presunzione stessa (ovvero deve esservi stato un superamento della norma).

Leggendo la sentenza, nella quale il punto della residenza fiscale viene sostanzialmente ignorato, si deve trarre la conseguenza che l’Agenzia ha certamente contestato una invalidità della presunzione (che è presunzione relativa) e questo deve essere avvenuto mediante un accertamento fiscale nel quale dovrebbe essere evidente il perché si ritiene che il soggetto sia veramente residente fiscale all’estero.
Trovatosi di fronte a questa contestazione il giudice penale deve aver vagliato questa tesi e quindi la sussistenza di tutti gli elementi atti a vincere la presunzione di residenza fiscale in Italia e avrebbe dovuto dare conto del cammino logico che lo ha portato a concludere in modo conforme alla opinione della Amministrazione Finanziaria.

Facile, per un fiscalista, dire che si tratta di un giudizio “a contrario” molto tecnico (5) e che nulla ha a che vedere con tipiche tematiche di carattere penale andando invece a coinvolgere un aspetto che per il diritto tributario è uno dei più complessi e difficili da determinare e che tocca aspetti di fatto che non sono di semplice valutazione neppure per uno specialista della materia sicché è lecito dire che in questa situazione il giudice penale è stato investito di una cognizione tecnica fiscale molto specialistica e quindi ha “invaso” un campo tipico della commissioni tributarie.

Il tema della stabile organizzazione
Su questo tema invece la Cassazione indica con chiarezza che dalle sentenze di merito è emerso, in un modo che possiamo dire evidente, il fatto che la società estera “… non esercitasse attività di impresa nel senso previsto dall’articolo 117 comma 2 del TUIR, quale circostanza per optare del regime del consolidato fiscale, ma mera attività di detenzione limitata al semplice godimento dei relativi frutti …”.
In buona sostanza l’affermazione si sintetizza nel dire che siamo in presenza di una società Holding pura che si limita a percepire i dividendi ma che non esercita alcuna attività dinamica (in sostanza non dirige e coordina la partecipata) limitandosi a presenziare alla assemblea della partecipata ove, si immagina, procede solo a deliberare una erogazione del dividendo.

Pare anche che la società estera avesse aperto in Italia una stabile organizzazione (o meglio, per essere tecnici e considerando il fatto che non svolgeva attività di impresa, una mera sede secondaria cui probabilmente doveva riferirsi la partecipazione detenuta nella controllata (6)).
Anche qui il giudice penale è stato chiamato a pronunciarsi (e certamente lo stesso non si esime) su temi delicati del diritto tributario in quanto parlare o meno della esistenza di una stabile organizzazione in Italia significa accertare se esista un collegamento forte e stabile tra il soggetto estero ed il territorio italiano, un collegamento tale da implicare la debenza di imposte e l’obbligo di presentare una dichiarazione dei redditi (7) e se la situazione di fatto comporti il sorgere di questa entità.

Nel caso di specie si accerta che detta stabile organizzazione esiste ma non esercita l’attività richiesta dall’articolo 117 comma 2 del TUIR e siccome i soggetti esteri possono (8) fare la opzione per il consolidato fiscale solo se esercitano una attività di impresa in Italia ed in ogni caso l’insediamento del soggetto estero deve potersi definire come stabile organizzazione ai sensi della legge interna (articolo 162 TUIR) concludere che questa attività non esiste porta a conseguenze come quelle della sentenza.

E’ pacificamente ammesso che la determinazione circa la esistenza di una stabile organizzazione in Italia investe l’appuramento di importanti profili di fatto che sono tipici della attività di controllo (almeno in questo senso pare orientata la RM 141/E del 2008) e quindi anche per questo punto il giudice penale ha esteso il suo decidere su una materia che è tipica delle Commissioni Tributarie.

Sintesi sul punto
In conclusione si ha che il giudice penale è stato chiamato a pronunciarsi in modo esplicito e determinante su due aspetti di forte contenuto tecnico che sono: a) la residenza fiscale della consolidante (e se avesse concluso per la residenza fiscale in Italia della società costituita all’estero allora il secondo tema, quello della stabile organizzazione, non si sarebbe posto); b) esistenza di una stabile organizzazione o meno in Italia della consolidante estera e svolgimento di una attività di impresa (e si deve anche considerare che se si concludere per la esistenza di una stabile organizzazione si deve ammettere che il soggetto estero produce un reddito di impresa in Italia (9) e quindi ha titolo per fare la opzione per il regime del consolidato fiscale).
Si tratta di temi per i quali nel giudizio tributario si giunge certamente fino alla Corte di Cassazione e che richiedono una valutazione molto attenta di aspetti fattuali (10).

Il fiscalista e le sue domande
Le domande che sorgono ad un mero fiscalista non esperto di cose penali sono di triplice natura e riguardano: a) il tema del doppio binario; b) il tema della incidenza in materia penale che può avere una modifica delle norme fiscali che si assumono violate e che portano a formulare il fatto di reato e c) il tema delle conseguenze di una diversa sentenza del giudice tributario rispetto a quella del giudice penale, in primis quando tale sentenza è una sentenza successiva alla conclusione del procedimento penale.

Se guardiamo al primo tema diciamo che la sentenza mette in evidenza il rischio insito nel doppio binario solo che si pensi al possibile conflitto di giudicati tra quello che può decidere il giudice penale e quello che potrebbe essere deciso in Commissione Tributaria con la possibile (ed assurda) conclusione che potrebbe aversi un sequestro (e poi una confisca) in presenza di un provvedimento cautelare di segno opposto della Commissione Tributaria ai sensi dell’articolo 47 del decreto legislativo 546/1992.
Appare del tutto evidente in questa situazione (11) che è necessario fare una distinzione tra elemento oggettivo del reato ed elemento soggettivo dello stesso (quindi tra fatto di reato e il dolo o la colpa).

In buona sostanza il fatto di reato, almeno nel caso di specie, dipende dalla violazione di norme strettamente fiscali, come sono quelle in merito alla residenza fiscale ed alla esistenza di una stabile organizzazione (12), mentre la esistenza del reato (13) in senso tecnico (come evento avente una rilevanza penale) si collega anche alla sussistenza del dolo o della colpa (nel caso di specie del dolo specifico che consiste nella volontà di evadere le imposte).
Se non abbiamo dubbi che il giudice penale sia attrezzato per accertare l’elemento soggettivo del reato (quindi dolo e / o colpa) (14) diciamo che qualche dubbio lo abbiamo sulla possibilità che lo stesso sia completamente attrezzato per accertare il fatto di reato che è una condizione importante e che deve determinarsi prima dell’elemento soggettivo.

Nel caso di specie l’aver tralasciato qualsiasi commento in merito alla norma concernente la residenza fiscale per statuire subito che non si ravvisa la esistenza di una attività di impresa ma di una attività di mero godimento traendo le conseguenza di legge sul piano fiscale e di conseguenza su quello penale in merito al sequestro dei beni ci pare che rende bene la evidenza di questa difficoltà tecnica dello stesso giudice penale a cogliere tutte le implicazioni fattuali che sono alle spalle di questa vicenda.

Se guardiamo al secondo tema, modifica delle norme tributarie la cui violazione ha portato a commettere il reato di dichiarazione infedele, un esempio può essere di aiuto per evitare fraintendimenti.
All’epoca dei fatti contestati non sarebbe stato certamente lecito procedere nella scelta del consolidato fiscale tra le società (A) e (B) anche se entrambe erano società residenti fiscali in Italia e possedute tutte da (C), società residente fiscale all’estero (15); tutto questo salvo il caso in cui (C) stessa non potesse sostenere di avere in Italia una stabile organizzazione (e quindi di essere un soggetto che produce un reddito di impresa in Italia).
In sostanza, assente la stabile organizzazione in Italia di (C) le due società residenti (tra loro sorelle) non avrebbero potuto compensare (sempre tra loro) l’imponibile e pagare l’imposta IRES sul risultato netto.

Anche in questo caso è facile dire che se lo avessero fatto e si fosse giunti alla conclusione che non sussisteva la stabile organizzazione in Italia di (C) si sarebbe raggiunta la stessa conclusione della sentenza che qui si commenta (16).
Ebbene detta norma è stata modificata ed oggi una simile opzione sarebbe anche lecita, da qui la possibile dimostrazione, certamente interessante in sede penale, che usando la norma tecnica di oggi il reato (inteso come fatto oggettivo) non sarebbe certamente emerso anche se rimane fermo che per il passato detto regime non è valido per la Amministrazione Finanziaria e presta il fianco a precise contestazioni di carattere amministrativo (ma queste contestazioni provocano solo sanzioni di carattere pecuniario che investono la società e non il sequestro di beni personali).

Qui il fiscalista si pone un secondo dubbio che consiste nel chiedersi perché tra processi ormai conclusi e processi ancora non conclusi dovrebbe aversi una qualche differenza ovvero perché nel primo caso dovrebbe resistere una eventuale condanna che trova fondamento in un comportamento che è diventato lecito sul piano fiscale e la risposta che viene spontanea è quella di sostenere che la condanna (se comminata) decade mentre per i processi in corso (sempre che vi siano) viene meno il fatto oggettivo del reato in ragione della modifica intervenuta nelle norme che si assumono violate (17).

Infine il terzo ed ultimo dubbio (forse quello più drammatico) ovvero il conflitto di giudicati tra quello che viene deciso in sede penale e quello che viene deciso in sede tributaria dopo la conclusione del processo penale (conclusione avvenuta magari per un patteggiamento).
In linea di principio tale divergenza non può certamente escludersi con la conseguenza che potrebbe aversi il sequestro e confisca di beni per un debito che non esiste essendosi concluso un giudizio (specifico) che attesta del regolare comportamento del contribuente e qui viene spontaneo chiedersi se possa scattare il processo di revocazione della sentenza penale come appare giusto agli occhi di chi, non esperto della materia penale, si rende comunque conto delle conseguenze aberranti di una simile situazione conflittuale tra due giudicati.

Il fiscalista giunge ad una conclusione
La sentenza citata spinge a rimeditare con attenzione circa il tema dei rapporti tra il processo tributario (avanti alle Commissioni) e quello penale in quanto appare evidente che il giudice penale potrebbe diventare giudice del tutto chiamato a decidere anche di complesse fattispecie che dovrebbero essere di stretta competenza delle commissioni tributarie (o del Tribunale Tributario come si voleva chiamare l’organo giudicante in una proposta di riforma).

La natura fortemente tecnica (come si evince dal caso di specie) delle norme fiscali la cui violazione ha portato alla denuncia penale per dichiarazione infedele ed alle conseguenze patrimoniali indicate nella sentenza rende evidente che il fatto di reato richiede un giudizio strettamente tecnico che sia dirimente in merito alle tematiche la cui violazione è il substrato per sostenere la esistenza di una eventuale fattispecie di reato in senso tecnico (diciamo eventuale in quanto resta da accertare l’elemento soggettivo del reato).

Forse una divisione dei compiti tra i diversi organi giudicanti, divisione da farsi tenendo conto dei due elementi che devono entrambi sussistere per aversi un reato, potrebbe consentire di avere una giustizia più attenta agli aspetti di carattere tecnico ed una riduzione di quelle che sono le situazioni di rischio in ragione della loro estrema complessità (18) (la domanda finale quindi consiste nel chiedersi se questa pregiudiziale tributaria siamo pronti ad accettarla e forse questa è la vera domanda che ci dobbiamo porre come tecnici).

Paolo Comuzzi
(paolo.comuzzi@it.pwc.com)

Nicola Cameli
(nicola.cameli@it.pwc.com)



NOTE
1) In sostanza la società (B) controllata dalla società residente fiscale in Italia (A) e che a sua volta controlla (C), anche questa residente fiscale in Italia, si presume che sia residente fiscale nel nostro paese (quindi l’Amministrazione Finanziaria non deve provare niente ma limitarsi ad accertare il fatto).
2) La società costituita all’estero amministrata in maggioranza da soggetti residenti e che detiene partecipazioni di controllo in soggetti residenti si considera a sua volta residente fiscale in Italia (anche questa è una presunzione).
3) Secondo autorevole dottrina la società esterovestita (ovvero la società formalmente residente all’estero ma nella sostanza residente fiscale in Italia) non deve subire le ritenute sui dividendi, interessi e royalties ed in questo senso almeno Leo, Le imposte sui redditi nel TUIR, Milano, 2014.
4) Facciamo riferimento alla Risoluzione Ministeriale 409/E/2008.
5) Se è certo che la presunzione stabilita pro fisco non vale nel giudizio penale ci pare scorretto affermare che non vale la stessa presunzione quando essa viene fatta valere a suo favore dal contribuente nel senso che in presenza di una norma come quella citata (presunzione di residenza fiscale in Italia) l’assunzione di una posizione diversa da parte del giudice penale deve essere dettagliatamente motivata tenuto conto che le RM garantiscono al contribuente di poter accedere al regime del consolidato fiscale.
6) E’ molto discutibile se la mera detenzione di una partecipazione in presenza di una sede secondaria possa fare di questa una stabile organizzazione nel senso voluto dalla normativa fiscale per trarre delle conseguenze.
7) La violazione di questo obbligo ai sensi dell’articolo 5 della legge penale tributaria viene sanzionato con una pena importante. E’ proprio questa la norma che oggi viene usata dall’Amministrazione Finanziaria (in accordo con la magistratura penale) per le problematiche di alcune grosse multinazionali che sono accusate di avere in Italia una stabile organizzazione occulta.
8) Attenzione che le norme sono state modificate e questo genera una ulteriore considerazione interessante che svilupperemo alla fine del presente lavoro anche se non rileva nel caso di specie.
9) Se si raggiunge la conclusione che esiste una stabile organizzazione non si vede come si possa negare che si produce un reddito di impresa.
10) Aspetti sui quali incidono anche i recenti documenti emanati dall’OCSE.
11) Situazione molto tecnica in cui il reato dipendente strettamente da considerazioni giuridiche concernenti norme tributarie.
12) Quindi norme delle quali il tecnico dispone dei criteri di interpretazione.
13) Inteso questo come fatto umano, antigiuridico, colpevole e punibile secondo quella che è la teoria quadripartita del reato stesso.
14) Fermo restando che anche il giudice tributario dovrebbe essere attrezzato per questa valutazione considerato che le sanzioni di carattere amministrativo molto si avvicinano a quelle penali quando si parla dei principi che regolano la loro applicazione.
15) In sostanza (A) e (B) sono società sorelle possedute da (C).
16) In ogni caso questa modifica della legge non è applicabile al caso di specie che non vede un tema di consolidato fiscale tra società sorelle entrambe residenti fiscali in Italia. Nel caso di specie la modifica della norma non consente di dire che il problema è venuto meno.
17) Questa conclusione pare la sola capace di contemperare la esigenza punitive con quello che è l’illecito. Qui il prodursi del fatto penalmente illecito dipende in modo stretto dalla violazione di una norma di carattere tecnico / fiscale. Se questa norma viene modificata e quindi la violazione non sussiste già nel corso del processo penale (o non sussiste più) non si vede per quale motivo tale modifica che non nasce da una diversa interpretazione del giudice e /o da considerazioni soggettive frutto di un diverso sentire sociale ma è il risultato di una modifica attuata dal legislatore non debba agire in favore del contribuente / imputato.
18) Si pensi anche a tutto il discorso della stabile organizzazione occulta che oggi trova un grande sviluppo.

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