1. Il reclamo e la mediazione fiscale obbligatoria alla luce della riforma operata dal D.L. n. 98 del 06.07.2011, convertito con la Legge n. 111 pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 16 luglio 2011.

Sulla scia delle scelte civilistiche e commerciali, il Legislatore prosegue con l’opera di trasferimento – per fini deflativi – della soluzione delle controversie in favore degli strumenti alternativi alla giurisdizione, introducendo l’obbligatorio esperimento di una procedura conciliativa anche con riferimento alla materia tributaria.

Uno degli intenti riformatori sottostanti alle manovre estive del 2011 è sicuramente quello di ridurre le cause pendenti innanzi alle Commissioni Tributarie mediante l’introduzione dell’istituto del “reclamo e della mediazione” nella procedura tributaria.
Con il D.L. n. 98 del 06.07.2011 – convertito con modificazioni in L. n. 111 del 15.07.2011, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 16 luglio 2011 (manovra economica 2012-2014)– , è previsto, all’art. 39 commi 9 – 10 – 11, l’introduzione, nel D. Lgs. 546/92 (recante disposizioni in materia di processo tributario), dell’art. 17 bis, rubricato “il reclamo e la mediazione”.

Come illustrato nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del citato decreto, il nuovo istituto dovrebbe offrire un “rimedio amministrativo per deflazionare il contenzioso relativo ad atti di valore non elevato, emessi dall’Agenzia delle entrate” e notificati ai contribuenti a partire dalla data del 1° aprile 2012.
Nonostante le limitazioni della fattispecie prospettata, la finalità del nuovo obbligo di cui si fa carico il contribuente è quella di evitare il più possibile l’instaurazione di un contenzioso, in favore di una composizione bonaria della controversia, che, tuttavia, come vedremo, non sembra riservare i vantaggi che una rinuncia giurisdizionale dovrebbe comportare.

La sequenza del reclamo e della mediazione prevede una sorta di proposta inoltrata dal soggetto – facoltativa – che propone reclamo e che è suscettibile di accoglimento o di rigetto da parte dell'amministrazione finanziaria ed una successiva proposta di mediazione dell’ufficio – obbligatoria – . In mancanza di tale proposta, la norma prevede, invece, l’obbligo, da parte dell’ufficio, di proporre una mediazione. La struttura che seguirà le procedure di reclamo sarà una ad hoc, differente rispetto a quella che ha provveduto all’ emissione dell'atto impugnato.

Vi sono poi alcuni aspetti che rendono il percorso del reclamo simile ad atti che vengono trattati nel contenzioso tributario; questo aspetto emerge mediante il rinvio alle disposizioni in materia di conciliazione giudiziale ovvero, più ancora, al fatto che il reclamo di fatto si tramuta in ricorso e dunque viene intrapresa la strada del giudizio tributario vero e proprio, già da una fase antecedente a quella – eventuale - processuale. Il passo dal reclamo al ricorso (da intendere come contenuto del reclamo) è fissato dal termine di 90 giorni, che decorrono dal giorno successivo:
- a quello di compimento dei 90 giorni dal ricevimento dell'istanza da parte della direzione provinciale o regionale, qualora entro tale termine non sia stato notificato il provvedimento di accoglimento ovvero non sia stato formalizzato l'accordo di mediazione;
- a quello di notificazione del provvedimento di diniego o di accoglimento parziale dell'istanza prima del decorso dei predetti 90 giorni (se il contribuente riceve comunicazione del provvedimento dopo la scadenza del novantesimo giorno, il termine di 30 giorni per la costituzione in giudizio decorre comunque dal giorno successivo a quello di compimento dei 90 giorni).

La circolare esplicativa n. 9/E/2012 del 19 marzo 2012, specifica che l’ufficio contenzioso delle direzioni regionali sarà rinominato ufficio legale e sarà distaccato dal settore controlli e riscossione; l’ufficio dipenderà direttamente dal direttore regionale.
Questa circostanza, garantirebbe, secondo l’Agenzia delle Entrate, la terzietà richiesta dall’istituto; unitamente al distacco fisico dell’ufficio, ci si chiede se potrà bastare questa delimitazione a garantire l’ imparzialità dei procedimenti.

Ma, molti ancora sono i dubbi.

Il legislatore prevede, altresì, che la proposizione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso e può essere rilevata in ogni stato e grado del processo.
A tal proposito, segnaliamo – nel paragrafo n. 8 “i dubbi sull’istituto” – il profilo incostituzionale prospettato attraverso il requisito dell’inammissibilità nei casi di mancanza della proposizione del reclamo.

2. La norma: D.L. 98/2011, art. 39 commi 9,10,11

Il comma 9 dell’art. 39 citato ci fornisce il testo letterale della nuova disposizione tributaria; art. 17 bis: “Dopo l’articolo 17 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e’ inserito il seguente articolo:
«Art. 17-bis (Il reclamo e la mediazione) –
1. Per le controversie di valore non superiore a ventimila euro,relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso e’ tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le disposizioni seguenti ed e’ esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48.
2. La presentazione del reclamo e’ condizione di ammissibilita’ del ricorso. L’inammissibilita’ e’ rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
3. Il valore di cui al comma 1 e’ determinato secondo le disposizioni di cui al comma 5 dell’articolo 12.
4. Il presente articolo non si applica alle controversie di cui all’articolo 47-bis.
5. Il reclamo va presentato alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili.
6. Per il procedimento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 12,18, 19, 20, 21 e al comma 4 dell’articolo 22, in quanto compatibili.
7. Il reclamo può contenere una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell’ammontare della pretesa.
8. L’organo destinatario, se non intende accogliere il reclamo volto all’annullamento totale o parziale dell’atto,ne’ l’eventuale proposta di mediazione, formula d’ufficio una proposta di mediazione avuto riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa. Si applicano le disposizioni dell’articolo 48, in quanto compatibili.
9. Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. I termini di cui agli articoli 22 e 23 decorrono dalla predetta data. Se l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego. In caso di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento parziale.
10. Nelle controversie di cui al comma 1 la parte soccombente e’ condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del procedimento disciplinato dal presente articolo. Nelle medesime controversie, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria, può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione
.”.

Di notevole importanza, oltre al dettato normativo che si spiegherà nel prosieguo, la collocazione della norma all’interno del Decreto recante disposizioni in materia di processo tributario.

Come noto, il titolo II del D. Lgs. 546/92, rubricato “Il Processo”, introduce, l’argomento con l’art. 18, rubricato “Il ricorso”; in un’ottica astringente e perentoria, quale quella delle norme del processo tributario, l’art. 17 bis si impone sulla scena fiscale, come ultima norma del titolo I, capo II, del D. Lgs. 546/92, rubricato “delle parti e della loro rappresentanza e assistenza in giudizio”; sintomatico il fatto che, trattandosi di un ibrido tra il ricorso vero e proprio e la fase antecedente allo stesso, non trova la giusta collocazione nel Titolo II – rubricato “il processo”, ma risulta oltremodo fuori campo la sua attuale ubicazione, non essendo nemmeno relativo all’argomento in cui è stato inserito.

3. La natura del reclamo

Dato il tenore della norma – art. 17 bis, comma 8 “annullamento totale o parziale” – il reclamo sembra avere i connotati di un’istanza di autotutela obbligatoria, preventiva al ricorso.(relativamente al profilo critico di questo aspetto si rinvia al par. 9, lett. f).

Da un’attenta lettura del disposto normativo, emerge come la disciplina del reclamo-mediazione di cui all’art. 17 bis, è stata inserita nel corpus delle norme processuali tributarie quasi ad evidenziare la diretta strumentalità dell’istituto con i propositi funzionali della giustizia tributaria.
La nuova procedura, infatti, si offre come rimedio amministrativo prima, e come presupposto giudiziale poi, al fine di far coincidere – in un’ottica di deflazionamento del contenzioso – le necessità del sistema tributario e i diritti dei contribuenti.

Almeno questi sono gli intenti divulgati dalla voce fiscale, ancora in attesa di essere verificati.
Il reclamo è un procedimento di “secondo grado”, in quanto viene avviato alla conclusione di un precedente procedimento amministrativo (quello che si è concluso con l’emanazione dell’atto ritenuto viziato).
Esso definisce la questione nell’ambito della funzione tipica della Pubblica Amministrazione, quella amministrativa, senza che alcun organo giurisdizionale (Giustizia Amministrativa o Giustizia Ordinaria) debba pronunziarsi.
Infatti, sebbene rivolto a conseguire l’annullamento totale o parziale del provvedimento, non assume la forma di uno dei ricorsi tipici, bensì ne ricava alcune caratteristiche peculiari:
- l’impugnatorietà: il reclamo ha certamente natura impugnatoria, in quanto configura un rimedio contro un atto amministrativo lesivo dell’interesse sostanziale garantito dalla norma;
- la giustizialità: il reclamo sorge da una controversia ed è un mezzo, il primo e in alcuni casi ultimo, di difesa del contribuente relativamente ad una situazione giuridica che la parte afferma essere stata lesa, per cui l’Ufficio si pronuncia in relazione ad elementi e motivi esistenti nella domanda di parte.
- la non estraneità: il reclamo non è presentato ad un giudice, bensì ad un organo che non si trova in una posizione di distacco rispetto ad una delle parti in causa: infatti fa parte della stessa Pubblica Amministrazione alla quale appartiene l’organo che ha emanato l’atto – nonostante la sua ubicazione sia estranea agli uffici dai quali vengono posti in essere gli atti di accertamento – .
Non può, oltretutto, essere considerato un ricorso gerarchico vero e proprio.

La norma dispone che la struttura dell’ente impositore competente al reclamo sia diversa e autonoma da quella che ha emanato l’atto reclamabile, anche se non è né sovra né sott’ordinata all’ufficio che ha emanato l’atto: il reclamo va infatti presentato alla direzione provinciale o alla direzione regionale, che lo affida alle strutture deputate alla gestione del contenzioso per un esame operato in piena autonomia rispetto alle diverse strutture che hanno curato l’istruttoria degli atti reclamabili; tale struttura autonoma farà capo direttamente al direttore provinciale o al direttore regionale.
Il reclamo appare così come uno strumento “atipico”, ma comunque aderente alle linee organizzative della Pubblica Amministrazione, ormai irreversibilmente mutate e che sempre più vedono affievolire il rilievo dell’ordinamento gerarchico al proprio interno.

Risulta opportuno, in questa sede, evidenziare come in dottrina, ci siano già delle tesi contrastanti proprio sulla natura dell’istituto ed in particolare sulle lapalissiane differenze emergenti dal confronto con la disciplina civilistica (da cui proviene l’istituto).

Infatti, alcuni hanno intravisto nella mediazione uno strumento di privatizzazione della giustizia con la conseguenza che diventa elevatissimo il rischio della caduta delle garanzie offerte alla parte più debole e una sostanziale negazione dell’accesso alla giustizia.

Da un confronto con la disciplina civilistica, invero, balza agli occhi una grave anomalia; nel settore civilistico la domanda di mediazione è proposta con una istanza (avente determinati requisiti) ad un organismo abilitato e terzo(enti appositamente iscritti in un apposito registro presso il Ministero della Giustizia); nel ramo tributario, invece, la stessa va inoltrata “alla Direzione provinciale o regionale che ha emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili”(come disposto dall’art. 17-bis, comma 5).

Pur avendo mutuato dalla disciplina civilistica il carattere di procedibilità per l’accesso alla giustizia tributaria – che nel caso del diritto tributario si tramuta in “inammissibilità”, cfr. par. 9, lett. e) – , non si intravede nessuna figura di “mediatore”, ma si continua a vedere ancora una violazione costituzionale dei principi di legittima difesa e di imparzialità dei procedimenti giurisdizionali.

Dunque, un rimedio amministrativo paraprocessuale, che attraverso la valutazione – per il tramite di un ufficio legale terzo rispetto all’ufficio “impositore” – del “grado di sostenibilità della pretesa, dell’incertezza della questione controversa e del principio di economicità dell’azione amministrativa”, consentirebbe – in via stragiudiziale – la definizione della lite.

Sicuramente, vi sarà un confronto dialettico tra Amministrazione e contribuenti, ma non sembra ancora chiaro, in che modo e secondo quale principio sottostante all’imparzialità che vige nei procedimenti giudiziali, ci sarà un accordo, nel vero senso del termine.
L’introduzione dell’istituto in esame, non può non tenere conto del fatto che, da sempre, il Fisco e i contribuenti parlano due lingue diverse; figuriamoci poi, quando la valutazione di una querelle viene affidata a qualcuno di parte – di cui non si sanno neanche le competenze e il modo in cui sono state raggiunte.

4. L’oggetto

Il comma 1 dell’art. 17-bis individua immediatamente quali siano le controversie che, obbligatoriamente, devono transitare dalla fase del reclamo, pena l’inammissibilità del ricorso. Si tratta delle controversie che, congiuntamente, riguardano:
• una pretesa impositiva in termini di imposte dovute non superiore a 20 mila euro indipendentemente dal tributo in contestazione riconducibile all’Agenzia delle Entrate. Sul punto va rilevato come in caso di contestazione afferente più tributi dovrà essere presa in considerazione la somma dei tributi medesimi mentre, nel caso di atto di irrogazione delle sanzioni, il limite in questione andrà ovviamente valutato con riferimento all’ammontare delle stesse;
• relative agli atti indicati nell’art. 19 del D. Lgs. n. 546/1992.

Particolare importanza riveste il chiarimento reso dall’Agenzia delle Entrate, nella circolare, relativamente alla circostanza che tra gli atti che devono transitare dalla procedura del reclamo rientra anche il diniego tacito rispetto ad una istanza di rimborso.

Altra questione sulla quale appare opportuno effettuare una riflessione attiene alla possibilità di proporre reclamo in relazione al ruolo che, solitamente, si concretizza da parte dell’Agenzia delle Entrate, in una cartella esattoriale. Ovviamente, il caso di specie non si riferisce alla cartella esattoriale emessa successivamente alla notifica di un accertamento (laddove ancora non esecutivo), ma all’atto tipicamente riscossivo con il quale l’Amministrazione finanziaria procede, ad esempio, ad esigere somme derivanti dalla liquidazione della dichiarazione ovvero dal controllo formale della stessa.

Tali cartelle esattoriali, laddove riportanti una pretesa impositiva inferiore ai 20 mila euro, dovranno essere considerate ai fini della chiusura della procedura di reclamo, anche in relazione all’ammontare della riduzione della sanzione dovuta.
Infatti, nell’ambito della nuova procedura, sono dovute le sanzioni nella misura del 40% della sanzione edittale analogamente a quanto previsto in materia di conciliazione giudiziale (art. 17 bis, comma 8).

Riassumendo, il reclamo:
- è l’atto introduttivo della fase amministrativa di riesame dell’atto impositivo;
- deve riprodurre gli stessi requisiti di contenuto e di forma propri del ricorso in sede giurisdizionale.

Pertanto:
- per proporre reclamo contro atti di valore superiore a 2.582, 28 euro, il contribuente deve essere assistito da un difensore abilitato ex art. 12, D. Lgs. n. 546 del 1992;
- il reclamo deve contenere gli elementi elencati nell’art. 18, D. Lgs. n. 546 del 1992;
- possono essere oggetto di reclamo soltanto gli atti impugnabili indicati dall’art. 19, D. Lgs. n. 546 del 1992;
- il reclamo deve essere notificato secondo le modalità previste dall’art. 16, D.Lgs. n. 546 del 1992;
- il termine per la proposizione del reclamo è di 60 giorni dalla notifica dell’atto impositivo (ex art. 21, D. Lgs. n. 546 del 1992);
- il reclamo deve essere depositato presso l’ufficio che ha emesso l’atto impositivo secondo le modalità indicate dall’art. 22, D. Lgs. n. 546 del 1992.

Il procedimento è attivabile per le controversie di valore non superiore a 20.000,00 Euro, calcolato sulla base del valore del tributo ed al netto di sanzioni e interessi, che secondo quanto riportato nella relazione al provvedimento, costituiscono oltre la metà di quelle instaurate presso le Commissioni tributarie (105.000 controversie, pari al 56% di quelle instaurate nel 2010).

L’ambito oggettivo comprende anche le controversie sui rimborsi d’imposta (compresi i dinieghi alle istanze di rimborso), ma sono escluse le controversie in materia di recupero di aiuti di stato ex art. 47 bis del D. Lgs. 546/92.

5. La Procedura


Preliminarmente le condizioni di accesso alla fase giurisdizionale sono :
- gli atti suscettibili di reclamo devono essere notificati a decorrere dal 1° aprile 2012;
- l’entità della lite deve essere di importo non superiore ai 20.000,00 Euro; con tale somma si intendono le sole maggiori imposte contestate con l’atto impositivo e quindi al netto di interessi e sanzioni;
- l’atto impositivo deve essere emesso dall’Agenzia delle Entrate e non da altri enti o amministrazioni.
Fatti salvi i presupposti in fatto appena esposti: il reclamo va presentato alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l'atto, le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l'istruttoria degli atti reclamabili.
Per il procedimento si applicano, ove compatibili, le disposizioni previste per il normale contenzioso tributario e precisamente le regole in materia di:
• assistenza tecnica (art. 12 D.Lgs. n. 546/1992);
• ricorso, atti impugnabili, oggetto e termini per la e proposizione dello stesso (artt. 18, 19, 20 e 21 D.Lgs. n. 546/1992).

Il reclamo può contenere una motivata proposta di mediazione, completa della rideterminazione dell'ammontare della pretesa.

L'Agenzia delle Entrate (organo destinatario del reclamo), se non intende accogliere il reclamo volto all'annullamento totale o parziale dell'atto, né l'eventuale proposta di mediazione, deve formulare d'ufficio una proposta di mediazione avuto riguardo all'eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell'azione amministrativa.

Si applicano le stesse regole previste per la conciliazione giudiziale di cui all'art. 48 D.Lgs. n. 546/1992, in quanto compatibili.

Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l'accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso.
Pertanto, i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente (art. 22 D.Lgs. n. 546/1992) e della parte resistente (art. 23) decorrono dalla predetta data.

Se l'Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego.
In caso di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell'atto di accoglimento parziale.

Nelle controversie aventi ad oggetto una procedura di reclamo, la parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma pari al 50% delle spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del reclamo.

Parimenti, fuori dei casi di soccombenza reciproca, la commissione tributaria può compensare totalmente o parzialmente le spese tra le parti, solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente indicati, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione.

In caso di presentazione di istanza di accertamento con adesione, il termine per la proposizione del reclamo è sospeso per un periodo di novanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza di accertamento con adesione. In pratica, il contribuente a cui è stato notificato un avviso di accertamento che, in termini di imposta non supera la soglia dei 20 mila euro, potrà:
a) effettuare acquiescenza rispetto alla pretesa;
b) proporre istanza di accertamento con adesione;
c) in caso di mancata definizione in adesione potrà essere proposto reclamo;
d) nel caso di mancato accordo di mediazione, proporre la controversia alla cognizione del giudice tributario;

Per converso, laddove dovesse essere proposto preliminarmente il reclamo, non potrà essere formulata istanza di accertamento con adesione. In altri termini non può verificarsi la “retrocessione” da una fase contenziosa ad una fase amministrativa;

Ai fini della proposizione dell’istanza di mediazione opera la sospensione processuale del periodo feriale che, invece, non opera in relazione alla fase amministrativa nella quale l’ufficio che esamina il reclamo procede, eventualmente, allo svolgimento di un contraddittorio con il contribuente.

Appare opportuno sottolineare che, seppure non disciplinata, è possibile che intervenga anche la sospensione della riscossione in virtù del richiamo che la circolare dell’Agenzia delle Entrate formula alla disciplina dell’autotutela. Nella sostanza, se da un punto di vista normativo la proposta di mediazione può comportare anche l’annullamento dell’atto impositivo, in tale potere è compreso anche quello di sospendere – “in via amministrativa” – la riscossione contenuta nell’atto. È questo un tema che andrà attentamente valutato in relazione al possibile esercizio del potere di autotutela rispetto al reclamo formulato dal contribuente. Infatti, considerando i tempi strettamente delineati dalla norma e considerando come l’Agenzia delle Entrate, che la trattazione del reclamo può condurre anche all’annullamento dell’atto, indirettamente tale nuovo istituto potrebbe garantire in termini più veloci l’esercizio dell’autotutela laddove ne sussistano i presupposti. In ogni caso, la sospensione della riscossione non può protrarsi oltre i termini previsti dalla legge per la definizione della procedura di reclamo e, successivamente, laddove venga instaurato il giudizio dinanzi al giudice tributario, la medesima richiesta potrà essere formulata ai sensi dell’art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992.

6. Il reclamo e gli strumenti deflattivi.

La possibilità di scendere a patti col Fisco è stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 218/1997 recante disposizioni in materia di accertamento con adesione. L'introduzione di ulteriori strumenti deflativi del contenzioso tributario, ad opera della manovra triennale del 2007 e del decreto anticrisi di fine 2008, ha accelerato la riscossione dei proventi della lotta all'evasione e stabilizzato il numero delle liti tra contribuenti e fisco. La litigiosità tra contribuenti e amministrazione finanziaria viene molto limitata grazie all'offerta di ottime riduzioni sulle sanzioni, tanto più generose, quanto prima si risolve la controversia, se del caso, anche attraverso un ridimensionamento delle pretese erariali.

Al fine di rendere meno distaccata la fase dell’accertamento da quella della riscossione, sono stati previsti degli istituti che, attraverso la rinuncia alla fase giudiziale, permettono al contribuente e al Fisco di entrare in un “dialogo” tanto agognato, con effettivi benefici, in termini di riduzioni delle sanzioni, di possibilità di pagamento rateale delle somme e in alcuni casi anche di piccole esimenti da possibili accertamenti futuri – relativamente ai contribuenti, ed in termini di riduzione del contenzioso e costi della giustizia – relativamente al Fisco, ormai oberato di giudizi in attesa di essere decisi.

Con la circolare 20/E del 20 maggio 2010, l’Amministrazione finanziaria coglie l’occasione per promuovere questo tipo di strumenti, con l’intento di minimizzare la conflittualità tra Stato e contribuente, evitare i costi relativi all’instaurazione di contenziosi inutili e perseguire la strada delle Commissioni tributarie solo qualora tale scelta sia ragionevolmente opportuna.
Pare così, che negli ultimi 15 anni, gli strumenti deflativi del contenzioso abbiano raggiunto brillanti obiettivi, sia in termini processuali che in termini numerici.

La tanto voluta e cercata partecipazione del contribuente al procedimento di verifica del Fisco abita in questi strumenti consensuali, che mitigano l’accesso al contenzioso ma, allo stesso tempo, non ne precludono l’avvio ed in alcuni casi, ne fanno cessare gli effetti in virtù di pronte risoluzioni.

In tema di strumenti deflativi, il più utilizzato, risulta sicuramente l’accertamento con adesione.

Infatti, ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. n. 218/del 19.06.1997, l’accertamento delle imposte sul reddito e dell’imposta sul valore aggiunto può essere definito con l’adesione del contribuente. L’istituto, che costituisce un prius rispetto all’accertamento vero e proprio, evita l’emissione dell’atto impositivo impugnabile innanzi alla commissione tributaria provinciale.
La norma in esame non prevede soltanto “la rettifica della dichiarazione”, ma ammette la definizione anche in assenza di dichiarazione; inoltre se viene notificato un atto di accertamento, purché non preceduto dall’invito ad aderire e purché non impugnato, è possibile proporre istanza di adesione che, nel caso di insuccesso, non preclude l’incipit della causa in commissione tributaria.
In sintesi, tale strumento permette, la rideterminazione delle maggiori imposte accertate, attraverso il riesame dell’atto di accertamento, a seguito del contraddittorio tra fisco e contribuente.
La caratteristica dell’istituto de quo, risiede nella premialità che discende dal suo utilizzo, in alternativa all’immediato ricorso; in particolare, in termini di sanzioni, ridotte ad un terzo, oltre che nella sospensione dei termini per l’impugnazione, di 90 giorni.
In un’ottica di risoluzione fiscale, come quella che ci apprestiamo a vivere, l’accertamento con adesione ha prodotto una serie di soluzioni a casi importanti, tale da essere preferito alla quasi totalità degli istituti a garanzia del contribuente (come l’autotutela, l’acquiescenza).
Ricordiamo che tale istituto può essere attivato sia dal fisco che dal contribuente e che può produrre effetti positivi – che sbarrano la strada alla fase giudiziale, o effetti negativi – che si antepongono all’avvio del giudizio.
A seguito di un attento confronto tra la mediazione e l’istituto dell’accertamento con adesione, emergono una serie di dicotomie, oltre che alcune similitudini.
Innanzitutto, si tratta di due istituti differenti e autonomi; nessuna delle due esclude l’altra, anzi mentre l’adesione si verifica in una fase antecedente al contenzioso e può arrestarsi con un accordo stragiudiziale, il reclamo, seppur beneficiando, come nell’adesione, dell’eventuale definizione transattiva stragiudiziale, può, effettivamente, essere considerato l’anticamera della fase processuale.
Tanto vero che, in assenza di reclamo, il ricorso risulta inammissibile.
Come noto, l’istituto dell’adesione prevede il riesame da parte dell’ufficio della pretesa erariale; accade di frequente, che la pretesa sia rideterminata in modo parziale e che per la restante somma non concordata, il contribuente decida di proporre ricorso. Dal primo aprile 2012, in tutti i casi in cui dovesse prospettarsi una fattispecie analoga, al ricorrere dei presupposti (atto emesso dall’agenzia delle entrate e soglia fino ad un massimo di € 20.000,00), sarà obbligatorio proporre un reclamo preventivo alla fase giudiziale.
La netta differenza intercorrente tra i due istituti, seppur ambedue con natura premiale, consiste innanzitutto nell’identificazione del contraente “più forte”; in entrambi i casi, si tratta dell’Ufficio, anche se, come specificato dalla norma (art. 17 bis), nel caso di reclamo, ci sarà un ufficio diverso da quello che ha emesso l’atto, a valutare la fattispecie.
Ci si sarebbe aspettati di doversi rivolgere ad un “mediatore”, ma nonostante le precisazioni circa l’”autonomia” dell’ufficio che si occuperà dei reclami, si intravede, ancora una volta, una sorta di “abuso del diritto”, formulato per vie legali.
Già con l’istituto dell’adesione, nonostante i benefici concessi agli utilizzatori dello stesso, il contribuente si trova a dover “spiegare” le risultanze delle pretese, sapendo che non si trova a doverlo fare con una parte terza ed imparziale – come peraltro vorrebbe la Costituzione - ; con la mediazione non abbiamo ancora la certezza che il riesame della posizione contributiva venga fatto da un organo terzo e imparziale, anzi, la certezza è che sicuramente non lo sarà.
Tuttavia, ricordiamo che – come previsto dall’art. 4 del D. Lgs. n. 218/1997 - “La definizione non esclude l'esercizio dell'ulteriore azione accertatrice entro i termini previsti dall'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, relativo all'accertamento delle imposte sui redditi, e dall'articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, riguardante l'imposta sul valore aggiunto:
a) se sopravviene la conoscenza di nuovi elementi, in base ai quali e' possibile accertare un maggior reddito, superiore al cinquanta per cento del reddito definito e comunque non inferiore a centocinquanta milioni di lire;
b) se la definizione riguarda accertamenti parziali;
c) se la definizione riguarda i redditi derivanti da partecipazione nelle società o nelle associazioni indicate nell'articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ovvero in aziende coniugali non gestite in forma societaria;
d) se l'azione accertatrice e' esercitata nei confronti delle società o associazioni o dell'azienda coniugale di cui alla lettera c), alle quali partecipa il contribuente nei cui riguardi e' intervenuta la definizione.”
In questi casi, il contribuente che volesse proporre ricorso sarà obbligato a fare una proposta di reclamo preventiva al ricorso, con la sola differenza che mentre nell’accertamento con adesione il contribuente, come notoriamente accade, non presenta all’ufficio la documentazione completa a riprova dell’infondatezza della domanda erariale, in quanto, si precluderebbe, in una fase successiva, gli aspetti della difesa prospettabili in un ricorso di cui dovrà decidere un giudice – in teoria terzo e imparziale - .
Invero, il contenuto del reclamo dovrà essere identico a quello del ricorso, a pena d’inammissibilità, facendo così, in qualche modo svelare tutta la tesi difensiva del contribuente.
Infatti, è importante rilevare che l’adesione non rappresenta un grado di difesa del contribuente, cosa che invece è alla base del reclamo, sia per la circostanza temporale (ricordiamo che la predisposizione del reclamo presuppone la notifica avvenuta di un atto di accertamento), sia per un aspetto contenutistico (l’adesione non ha requisiti obbligatori a pena d’inammissibilità).
In buona sostanza, esclusi i casi in cui l’ufficio è tenuto ad una preventiva convocazione del contribuente – come nei procedimenti relativi agli studi di settore, la normativa antielusiva e i nuovi accertamenti sintetici – il reclamo si dovrebbe inserire tra l’esito negativo di un accertamento con adesione e la costituzione in giudizio dinanzi alla competente Commissione tributaria provinciale.
Tanto vero che la norma non prevede in alcuna maniera – nelle stesse circostanze in cui il reclamo si renda obbligatorio – non possa, allo stesso tempo, applicarsi l’istituto dell’adesione: ben potrà ritenersi un’ulteriore fase stragiudiziale antecedente al contenzioso.
Infatti, durante gli ulteriori 90 giorni concessi dalla proposizione del reclamo, è fatta salva la possibilità al contribuente di formulare una vera e propria proposta di mediazione (comprensiva della rideterminazione dell’ammontare della pretesa),o, in caso di discordanza, in base ad una proposta formulata dall’ufficio.
Quello che si cerca di evitare a tutti i costi è l’instaurazione del contenzioso, attraverso una specie di “annullamento” dell’atto impositivo, in quanto la norma prescrive che “decorsi 90 giorni senza che sia notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso”, con la conseguenza che i termini per la costituzione in giudizio decorrono da questa data; diversamente in caso di diniego o di accoglimento parziale i termini decorrono dal ricevimento del diniego o dell’accoglimento parziale.
Infine, non si capisce come, secondo la norma in esame, possa definirsi la procedura di reclamo che “si perfeziona nei modi previsti per la conciliazione giudiziale, le cui disposizioni, in quanto compatibili, sono espressamente richiamate”.
Ricordiamo che la conciliazione giudiziale, prevista dall’art. 48 del D. Lgs. 546/92 è uno strumento tipico della fase giudiziale, non a caso posizionato molto oltre la fase introduttiva del contenzioso; in più, il richiamo alla conciliazione prevede la definizione delle sanzioni nella misura del 40%, pertanto più elevate rispetto alla misura di un terzo stabilita dalla definizione stragiudiziale di adesione, oppure con l’omessa impugnazione.
Tra gli strumenti consensuali dell’accertamento, troviamo anche l’istituto dell’autotutela, disciplinato dalle previsioni di cui all'art. 68 del D.P.R. n. 287 del 1992 e all'art. 2-quater del D. Lgs. n. 564 del 30 settembre 1994 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 656 del 30 novembre 1994) e regolamentato dal Decreto del Ministero delle Finanze n. 37 dell' 11 febbraio 1997.
L'autotutela costituisce il potere/dovere dell'amministrazione finanziaria di correggere o annullare, su propria iniziativa o su richiesta del contribuente, tutti i propri atti che risultano illegittimi o infondati.
Tale potere spetta all'ufficio che ha emanato l'atto o che è competente per gli accertamenti d'ufficio, oppure – in via sostitutiva e in caso di grave inerzia – alla Direzione Regionale o compartimentale dalla quale l'ufficio stesso dipende.
L’autotutela tributaria determina la capacità contributiva manifestata dal presupposto ovvero la giustizia dell’imposizione. Ciò a cui mira il contribuente, quando ricorre all’autotutela, è l’accertamento di legittimità sull’infondatezza della pretesa impositiva o dell’indebita corresponsione di una somma effettuata a titolo d’imposta al fine della sua restituzione. Attraverso un controllo di legittimità, il contribuente ha come unico scopo quello di non subire un’ingiusta imposizione.
La caratteristica risiede nella genesi normativa di rango costituzionale alla quale si ispira l’istituto, in espresso richiamo degli artt. 23 e 53 della Costituzione in cui si prevede che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” e “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.
Notiamo subito come, differentemente dall’adesione e comunemente al reclamo, l’esercizio dell’autotutela avviene in un momento successivo a quello dell’emissione dell’atto di accertamento, in quanto il presupposto per la sua applicabilità è un atto di accertamento e la sua legittimità può essere attivata d’ufficio e consta di tre situazioni che si identificano nell’annullamento, revoca o rinuncia all’imposizione.
Importante il termine entro cui può essere proposta l’autotutela da parte del contribuente, ovvero fino al sopraggiungere del giudicato della sentenza.
Questo significa, che, anche in pendenza di giudizio, può essere formulata un’istanza di autotutela, o nei casi di non impugnabilità.
Anche in questo caso, non ci troviamo di fronte ad uno strumento di difesa strictu sensu, in cui il contribuente ha la facoltà di esprimere i propri rilievi relativamente alle censure segnalate dall’amministrazione finanziaria; diversamente, in questa sede, viene valutato l’errore, l’incompetenza, la tutela di un interesse pubblico, la legittimità dell’atto.
Se vogliamo, è anche un po’ l’intento che si propone l’istituto del reclamo, attraverso il tentativo di addivenire ad un componimento che ponga le basi per un annullamento dell’atto portato a conoscenza del contribuente.
Analogamente all’istituto del reclamo, abbiamo una dispersione di competenze relativamente al principio contenuto nello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) e precisamente all’art. 7 comma 2, lett. b) in cui è previsto che “l’Amministrazione finanziaria e i Concessionari della riscossione devono indicare tassativamente nei propri atti l’organo o l’Autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito degli atti stessi in autotutela”.
Dunque, non solo un riesame in sede di legittimità, ma anche una valutazione nel merito, per di più fatta da un organo o da un’Autorità che, oltre a rendersi responsabile dell’atto “annullabile”, si renda anche funzionale ad una valutazione nel merito della fattispecie.
Anche in questo caso, in parallelo con il reclamo, non ci è dato conoscere chi e secondo quale procedura (che dovrebbe essere soggetta alla trasparenza come disciplinata nella L. 241/90), ricopre la figura dell’Autorità nel caso dell’autotutela e del “mediatore”, nel caso del reclamo.
Tuttavia, uno spiraglio di luce appare descritto nel successivo art. 13 dello Statuto, in cui compare, in veste di organo esterno all’Amministrazione finanziaria, il Garante del Contribuente – che secondo autorevole dottrina avrebbe un “potere di iniziativa di ufficio eteronoma” – .
E così, in virtù della citata disposizione, sarebbe auspicabile, o perlomeno in qualche circostanza logico, pensare che una qualche figura “terza ed imparziale” è già presente sulla scena fiscale, ma che la prassi non ha mai coinvolto al punto tale da determinare una scelta univoca e decisa nei suoi confronti.
Durante l’approvazione del D.d.L. di stabilità finanziaria per il triennio 2012 – 2014, il Consiglio dei Ministri ha deciso di trasformare la figura del Garante del Contribuente da due o tre componenti di cui era formato, a organo monocratico; come dire che una figura terza ed imparziale non prenderà mai parte ai simposi tra fisco e contribuenti.
Infine, appare opportuno ricordare che, l’autotutela non sospende il termine per ricorrere, a differenza dell’adesione, in quanto, stante il carattere meramente amministrativo dell’istituto, l’unico rimedio esistente, in presenza di un anomalo silenzio dell’amministrazione, è la procedura contenziosa che, a partire dal 1° aprile 2012, sarà obbligatoriamente attivabile – al ricorrere dei requisiti innanzi specificati – esclusivamente previa presentazione del reclamo ex. art. 17 bis D. Lgs. 546/92.

7. Il rapporto tra il reclamo e l’accertamento esecutivo.


A decorrere dal 1° ottobre 2011 l’attività di riscossione è incorporata nella fase dell’accertamento relativamente ai periodi d’imposta in corso al 31.12.2007 e alle annualità successive.
L’art. 29 del Decreto Sviluppo n. 78 del 31.05.2010, convertito con modificazioni dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, introduce le nuove regole ai fini dell’accertamento esecutivo.
A partire dal 01 luglio 2011 – data successivamente portata al 1° ottobre 2011 – oggetto di accertamento esecutivo non saranno tutti i tributi, ma soltanto gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate in materia di imposte sui redditi, Irap e Iva nonché i provvedimenti di irrogazione delle sanzioni.
La novità principale del nuovo accertamento abita nel contenuto dello stesso che dovrà includere l’intimazione ad eseguire il pagamento delle somme pretese entro il termine di presentazione del ricorso (60 giorni), ovvero, nel caso di impugnazione dell’atto impositivo, le somme dovute a titolo provvisorio ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 602/73.
Risulta, pertanto, evidente, l’intento legislativo: contrastare per quanto possibile – attraverso l’intimazione di pagamento contenuta già nell’avviso di accertamento – il fenomeno dell’evasione dalla riscossione.
A seguito delle indicate innovazioni normative, il termine entro cui occorre provvedere al pagamento degli importi richiesti a titolo di imposta, sanzioni e interessi è quello per la presentazione del ricorso, cioè gli ordinari 60 giorni, fatto salvo però il caso in cui venisse presentata istanza di adesione (in tale situazione, il termine rimane sospeso per ulteriori 90 giorni).
Decorsi 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento, come sopra individuato, se il contribuente non paga, l'ufficio acquista titolo per delegare l'agente della riscossione a procedere.
In presenza di ricorso innanzi alla CTP, la richiesta corrisponde alla metà delle imposte pretese; in presenza però di un pericolo per la riscossione, può essere richiesto l'importo integrale, con la possibilità per il concessionario di procedere a esecuzione forzata sulla base dell'avviso di accertamento.
L'innovazione normativa si traduce sostanzialmente nell'accelerazione dei tempi della riscossione (parziale o totale) delle somme accertate, finalizzata a evitare i fenomeni di sottrazione al Fisco delle somme che sono oggetto di atti impositivi.
In sintesi, secondo la normativa in vigore:
- l'accertamento deve contenere l'avvertimento che, decorsi 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste sarà affidata ad Equitalia (incaricata del servizio di riscossione dei tributi erariali);
- in caso di fondato pericolo per la riscossione, le somme potranno essere affidate ad Equitalia prima dei termini di cui all'art. 29 del D.L. n. 78/2010, lettere a) e b);
- l'atto successivo rispetto all'avviso di accertamento è costituito dal pignoramento, che deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo;
- a seguito dell'affidamento del credito ad Equitalia, il contribuente può chiedere la dilazione delle somme dovute.
Nel nuovo sistema, l'avviso di accertamento diviene esecutivo con il decorso di 60 giorni dalla notifica dell'atto.
Pertanto, ai fini dell'esecuzione, non è più necessaria la notifica della cartella di pagamento.
A pena di nullità, l'avviso di accertamento notificato al contribuente deve contenere:
- l'indicazione dell'imponibile o degli imponibili accertati;
- l'indicazione delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti d'imposta;
- i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato.
A seguito delle modifiche apportate dal D.L. n. 78/2010, l'atto deve altresì contenere:
- l'intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all'obbligo di versamento delle somme richieste;
- l'indicazione degli importi da pagare a titolo provvisorio in caso di proposizione del ricorso, secondo quanto stabilito dall'art. 15 del D.P.R. n. 602/1973;
- l'avvertimento che, decorsi 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo sarà affidata ad Equitalia, ai fini dell'esecuzione forzata.
Nel nuovo contesto normativo, la riscossione, quindi, dovrà avvenire secondo la sequenza procedimentale:
- avviso di accertamento
- affidamento del credito all'agente della riscossione
- eventuale intimazione ad adempiere
- pignoramento
Poiché l'atto impositivo acquisisce il carattere dell'esecutività, il contribuente potrà evitare il rischio dell'esecuzione forzata solamente procedendo al pagamento (senza che si renda necessaria alcuna cartella esattoriale, perché non più prevista).
L'art. 29 del D.L. n. 78/2010 prevede infatti la seguente sequenza:
- affidamento del credito ad Equitalia con modalità che verranno determinate con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate (se l'ufficio dell'Agenzia delle Entrate dispone di ulteriori elementi utili – ai fini dell'efficacia della riscossione – li fornirà al momento dell'affidamento);
- sulla base del titolo esecutivo (che è costituito dall'avviso di accertamento) l'agente della riscossione, senza la preventiva notifica della cartella, procederà con l'espropriazione forzata, ai sensi del D.P.R. n. 602/1973 (l'espropriazione, in ogni caso, dovrà essere avviata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l'accertamento è divenuto definitivo).
L'art. 29 comma 1 lett. a), del D.L. n. 78/2010, prevede che l'intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento.
Ciò avviene in tutti i casi in cui siano stati rideterminati gli importi dovuti, in base agli avvisi di accertamento, ai fini delle imposte sui redditi e dell'IVA (mancato pagamento anche di una sola delle rate dovute a seguito di accertamento con adesione; pagamento del tributo in pendenza di processo; esecuzione delle sanzioni amministrative).
In tali ipotesi, il versamento delle somme deve avvenire entro 60 giorni dal ricevimento della raccomandata.
Nel caso in cui il contribuente raggiunto dall'atto impositivo scelga la strada del contenzioso, può essere richiesta la sospensione dell'atto stesso:
-in sede giudiziale, dinnanzi alla CTP (art. 47, D. Lgs. n. 546/1992), in presenza di verosimiglianza della pretesa (fumus boni iuris) e del danno grave e irreparabile (periculum in mora);
- in sede amministrativa, come è precisato dall'art. 29 del D.L. n. 78/2010, richiamando l'art. 39 del D.P.R. n. 602/1973.
Risulta altresì opportuno precisare un esempio di impugnazione di avviso di accertamento esecutivo, alla luce dell’introduzione dell’istituto del reclamo obbligatorio.
I termini per l’impugnazione dell’avviso di accertamento esecutivo restano sempre 60 giorni dalla notifica dell’atto; per poter procedere alla presentazione del ricorso sarà, tuttavia, necessaria la presentazione di un reclamo (con i requisiti ex art. 17 bis), il quale allo scadere dei 90 giorni previsti dalla procedura, produrrà gli effetti del ricorso (e così 30 giorni per la costituzione in giudizio).
Mettiamo il caso che il contribuente, prima ancora del ricorso, voglia tentare un’adesione con l’ufficio, al 59° giorno dalla notifica dell’accertamento. Pertanto, ai 59 giorni a seguito della ricezione dell’atto, se ne dovranno aggiungere altri 90, previsti dall’adesione, che sospendono gli effetti e i termini dell’accertamento.
Il contribuente non raggiunge un accordo con l’ufficio e decide di proporre ricorso – precisiamo che in questo caso ha soltanto un giorno utile per la proposizione del reclamo (ovviamente dando per certa la sussistenza dei requisiti per la proposizione dello stesso) – e, proponendo reclamo, tenta ulteriormente di addivenire ad un accordo o all’annullamento dell’atto notificatogli.
Aggiungeremo, così, ulteriori 90 giorni, trascorsi i quali, il reclamo produrrà gli stessi effetti del ricorso (costituzione nei 30 giorni successivi mediante deposito del fascicolo).
A questo punto, il contribuente, già alla presentazione del reclamo, avrà dovuto adempiere al pagamento di una parte delle imposte – in quanto dopo i 60 giorni dalla notifica l’atto diventa esecutivo – , come indicato nell’atto di accertamento (ricordiamo a tal proposito che le sanzioni non possono essere chieste prima della sentenza di primo grado); infatti, il 61° giorno dopo la notifica dell’atto, le suddette somme vengono affidate all’agente della riscossione che, tuttavia, non potrà – stante la normativa vigente – procedere ad esecuzione forzata prima dei 180 giorni da quando riceve in carico il provvedimento (e quindi avremo: 60 giorni per l’esecutività, 90 giorni per l’adesione, ulteriori 90 giorni per il reclamo, 30 giorni per l’affidamento, 180 giorni per l’inizio dell’esecuzione).
Ricordiamo che la sospensione di 180 giorni, prevista prima dell’inizio della riscossione, opera ex lege, ovvero senza che sia richiesto al contribuente alcun adempimento.
A tal proposito, è possibile, ai sensi dell’art. 47 del D. Lgs 546/92, in pendenza di ricorso, richiedere alla Commissione provinciale competente la sospensione dell’esecuzione dell’atto, se da questo possa derivare un danno grave e irreparabile; la sospensiva è richiesta con un’istanza contestuale o successiva al ricorso, che interrompe gli effetti dell’atto fino alla pubblicazione della sentenza di primo grado. La L. 106/2011, ha introdotto all’art. 47 del D. Lgs. 546/92 il comma 5 bis, il quale prevede che i giudici devono pronunciarsi sull’istanza di sospensione entro 180 giorni dalla data di presentazione dell’istanza.
Opportuno ricordare che la sospensione agisce solo sull’esecuzione e non anche sulle misure cautelari.
Il tutto si traduce in 450 giorni prima del primo atto esecutivo (il pignoramento), con il pagamento di una parte delle imposte. Senza considerare poi, il termine di sospensione feriale, con il quale i giorni diventerebbero 496 giorni, quindi oltre un anno e mezzo.
Fatta salva, ovviamente, la possibilità per l’agente della riscossione, di procedere alla richiesta di misure cautelari, al ricorrere delle situazioni di pericolo per la riscossione.
Infatti, le misure cautelari costituiscono una possibilità, per l'Amministrazione, di tutelare il credito erariale in presenza di una situazione di pericolo per la riscossione.
Tale normativa è stata sottoposta a revisione a opera dell' art. 27, D.L. 29.11.2008, n. 185, convertito dalla L. 28.1.2009, n. 2 e dell' art. 15, commi da 8-bis a 8-quater, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito dalla L. 3.8. 2009, n. 102.
I più recenti interventi interpretativi in materia, emanati dagli organismi di controllo, rappresentano delle precise linee di condotta per gli addetti alle attività ispettive e si rinvengono nella circolare dell'Agenzia delle Entrate 15.2.2010, n. 4/E, oltre che nella circolare del Comando Generale della Guardia di Finanza 7.4.2010, n. prot. 010449610.
Le più recenti innovazioni normative in materia di misure cautelari sono state apportate dall'art. 29, quinto comma, del D.L. 31.5.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.7.2010, n. 122.
Il carattere di novità della norma consiste nella modifica dell'art. 27, comma 7, primo periodo, del D.L. n. 185/2008, per effetto della quale le misure cautelari conservano, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, la loro validità e il loro grado a favore dell'agente della riscossione che ha in carico il ruolo, qualora siano adottate in base: al processo verbale di constatazione, al provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi, all'atto di recupero per la riscossione di crediti indebitamente utilizzati, al provvedimento di irrogazione della sanzione oppure all'atto di contestazione.
A seguito della modifica in commento, quindi, le misure cautelari conservano la loro validità e il loro grado a favore dell'agente della riscossione, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, ove adottate in base al pvc, al provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi, al provvedimento di irrogazione della sanzione o all'atto di contestazione; non più, dunque, in relazione agli importi iscritti a ruolo in base al provvedimento di accertamento di maggiori tributi (come prevedeva la precedente formulazione del settimo comma).
Le nuove regole possono essere coordinate con quanto previsto in materia di accertamento esecutivo (in presenza di pericolo per la riscossione, gli importi possono essere riscossi coattivamente senza rispettare il limite generale di 60 giorni).
È stata altresì disposta la sospensione dell'esecuzione forzata conseguente agli accertamenti esecutivi per 180 giorni decorrenti dall'affidamento in carico agli agenti della riscossione; tale sospensione non si applica con riguardo alle azioni cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore.

La sospensione non opera, inoltre, se gli agenti della riscossione vengono a conoscenza di elementi idonei a dimostrare il fondato pericolo di pregiudicare la riscossione.
Stando al respiro europeo delle liti pendenti con il Fisco, l’istituto del reclamo, unitamente agli strumenti consensuali già utilizzati, consentirebbe una sorta di allineamento con gli altri Paesi, mediante il quale la valutazione della magistratura entrerebbe in campo solo per le controversie effettivamente rilevanti.

Cosa s’intende per “effettivamente rilevanti” non si riesce bene ancora a delineare, dal momento che nell’ultimo anno, ci sono state una serie di modifiche legislative e di incrementi di norme che, essendo ancora in via sperimentale, attendono di produrre gli effetti sperati, ma ancora produttivi di un numero elevato di dubbi.

Relativamente alla comunicazione dell’agente della riscossione, emerge che la avviso verrà inviato al contribuente nel momento in cui l’agente della riscossione avrà preso in carico la somma risultante dall’avviso di accertamento, mediante una raccomandata semplice, con pregi e difetti che questa comunicazione comporterà.
Infatti, da un lato, con fini quasi “educativi” per i contribuenti, l’informativa sarà il campanello d’allarme per il contribuente; nello specifico, perché la comunicazione dell’agente della riscossione, lo avvertirà che nessun altro avviso sarà portato alla sua conoscenza relativamente alle debenze tributarie a suo carico.

Da un altro lato, poiché la richiesta di rateazione può essere avanzata a seguito dell’affidamento della riscossione, la comunicazione de quo, dovrebbe servire anche a segnalare, a chi interessato, che da quel momento può attivarsi la richiesta di rateazione.

Infatti, il recentissimo D.L. n. 16 del 02.03.2012, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 52 ed in vigore dalla stessa data, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, dispone all’art. 8, comma 12:
“Al decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, sono apportate le seguenti modificazioni: ) all'articolo 29, comma 1:
1) alla lettera b), in fine, e' aggiunto il seguente periodo:
«L'agente della riscossione, con raccomandata semplice spedita all'indirizzo presso il quale e' stato notificato l'atto di cui alla lettera a), informa il debitore di aver preso in carico le somme per la riscossione»;
2) alla lettera c), in fine, sono aggiunte le seguenti parole:
«e l'agente della riscossione non invia l'informativa di cui alla lettera b)»”.

Le perplessità circa la norma sono notevoli, soprattutto relativamente al fatto che non sono ancora palesi le conseguenze di un eventuale mancato od erroneo invio dell’informativa; in quale modo vi potrà essere la tracciabilità di questa nota della riscossione, entro quali termini e in quale misura si potrà rilevare un eventuale vizio attinente alla raccomandata; tutti ancora interrogativi senza risposta.

Senza contare poi, che nel secondo periodo, la norma prevede che l’”atto di cortesia” dell’agente della riscossione, non venga in essere qualora sia ravvisato un elemento di pericolo per la riscossione; in soldoni, l’avviso sarà inviato al contribuente nel momento in cui le somme saranno prese in suo carico, eccezion fatta per tutti i casi in cui sussiste il pericolo per la riscossione, ove si procederà direttamente all’esecuzione.

8. La Circolare n. 9/E/2012 del 19 marzo 2012


Con la diramazione della circolare 9/E dell’Agenzia delle Entrate del 19 marzo 2012, vengono resi i profili operativi e i chiarimenti necessari per l’applicabilità dell’istituto del reclamo e della mediazione come disciplinati dall’art. 17 bis del D. Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 – introdotto dal D.L. n. 98 del 06 luglio 2011, art. 39 commi 9, 10, 11, convertito con modificazioni dalla legge n. 111 del 15 luglio 2011 – che comporta l’instaurazione di una fase amministrativa pre-processuale obbligatoria con finalità deflative del contenzioso.

Parte I. L’ambito di applicazione del nuovo istituto.
Dopo una lunga attesa, giunge la Circolare 9/E/2012, che già in premessa non tradisce le aspettative: i propositi dell’Ufficio sono quelli tanto chiacchierati di “economicità processuale”, “dialogo tra contribuenti e Ufficio”, sviluppare la tax compliance.
Ebbene l’Ufficio afferma (pag. 8) che, “il procedimento di mediazione si svolge su un piano di sostanziale parità tra contribuente ed Ufficio”, ed ancora, a pag. 9, che “ la mediazione tributaria è istituto diverso dalla mediazione disciplinata dal D. L. n. 28 del 4 marzo 2010”.
I criteri ispiratori dell’ingresso dell’istituto sono: la tipologia dell’atto impugnato, la parte resistente nell’eventuale giudizio e il valore della controversia.
Dando per recepito quanto esposto relativamente ai requisiti di applicabilità dell’istituto in esame, cerchiamo di dare voce alla “modalità operativa” indicata dalla circolare.
E così, oggetto di mediazione saranno:
- Avviso di accertamento;
- Avviso di liquidazione;
- Provvedimento di irrogazione delle sanzioni;
- Ruolo;
- Rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e interessi o altri accessori non dovuti;
- Diniego o revoca di agevolazioni o rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari.
- Ogni altro atto emesso dall’agenzia delle Entrate, per il quale la legge preveda l’autonoma impugnabilità innanzi alle commissioni tributarie.
Per tutti questi atti (per un importo non superiore ad € 20.000,00 esenti da sanzioni e interessi), notificati a partire dalla data del 02 aprile 2012, il contribuente che volesse impugnare gli stessi, sarà tenuto alla presentazione del reclamo ai sensi dell’art. 17 bis.
Il reclamo dovrà contenere le motivazioni di fatto e di diritto – che devono coincidere in un momento eventuale e successivo, con il contenuto del ricorso – in base ai quali si richiede l’annullamento totale o parziale dell’atto; contestualmente e facoltativamente, il contribuente può formulare una proposta di mediazione, comprensiva della rideterminazione delle imposte calcolate.
In sintesi l’istanza dovrà contenere:
1. La Direzione nei cui confronti è avviato il procedimento amministrativo in esame, cui spetta la legittimazione in giudizio (ex art. 10 D. Lgs. 546/92);
2. I dati relativi al contribuente, al suo legale rappresentante, la residenza o sede legale, il codice fiscale e l’eventuale indirizzo PEC.
3. I riferimenti dell’atto impugnato e l’oggetto;
4. I motivi.
L’istanza dovrà anche contenere il valore della causa – requisito di accesso all’istituto del reclamo – ; la circolare specifica che nei casi in cui vi siano più atti da impugnare, sarà possibile proporre un’unica istanza anche se in questo caso non essendo applicabile la riunione ex art. 29 del D. Lgs 546/92, si instaureranno separati procedimenti.
Anche nel caso del reclamo sarà necessario, decorsi i novanta giorni dalla presentazione dell’istanza o dal giorno successivo a quello del diniego, applicare il contributo unificato, precisamente al momento del deposito del reclamo nella segreteria della Commissione Tributaria: siamo adesso in fase processuale.
L’istanza di reclamo deve essere notificata alla Direzione provinciale o regionale competente entro il termine perentorio di 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnabile, proprio come se fosse un ricorso.
Nel caso in cui, invece, l’atto impugnato sia un rifiuto tacito a seguito di una domanda di rimborso, l’atto andrà notificato allo scadere dei novanta giorni dalla data di presentazione della domanda e sarà esperibile fino alla prescrizione del diritto di restituzione.
Poiché la presentazione dell’istanza di reclamo non prevede in automatico la sospensione degli effetti dell’atto impugnato, la circolare specifica che sarà possibile inserire nell’istanza una richiesta di sospensione, rendendo estensiva all’istituto la portata dell’art. 2- quater, comma 1 bis del D.L. n. 564 del 30 settembre 1994.

Parte II. La trattazione dell’istanza di mediazione: caratteristiche e problematiche.
1. La trattazione dell’istanza.
A seguito della presentazione dell’istanza di reclamo, l’Ufficio procede alla disamina della stessa, prendendo come parametri di valutazione:
- la sussistenza dei requisiti;
- la fondatezza dei motivi di contestazione dell’atto;
- la valutazione della proposta eventualmente formulata dal contribuente ed in caso di mancanza della stessa, l’ufficio invita al contraddittorio il contribuente a seguito del quale può formulare una rideterminazione della pretesa – art. 17 bis, comma 8 – ;
- in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, l’Ufficio formula una proposta di mediazione recante l’intero importo delle imposte accertate, al fine del solo beneficio di riduzione delle sanzioni (nella misura del 40%);
- in via subordinata, come extrema ratio, l’ufficio provvede al diniego.
In questa fase, la priorità dell’Ufficio è quella di valutare eventuali profili di inammissibilità dell’istanza (ad esempio tardiva presentazione, mancanza di sottoscrizione – che impedisce di attribuire l’istanza al contribuente - , problematiche relative alla mancata individuazione dell’oggetto che, ricordiamo, hanno come effetto diretto l’inammissibilità del ricorso).
Purtuttavia, la circolare precisa che anche nei casi di palese inammissibilità, l’istanza può comunque essere trattata come una richiesta di autotutela.
Ricordiamo che, ai sensi del comma 5 dell’art. 17 bis, l’istanza va presentata alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l’atto, ma è valutata dall’ufficio legale della Direzione provinciale o regionale; circostanza che, secondo l’ufficio e secondo quanto previsto dalla norma, garantirebbe il necessario requisito di distacco e di autonomia, oltre che di estraneità alle parti, ai fini di una corretta e non soggettiva valutazione dell’istanza.
Appare tuttavia suggestiva e romantica l’idea che affidare la trattazione di un reclamo avverso un atto impositivo emesso – esclusivamente – dall’Agenzia delle Entrate, all’ufficio legale – seppur in sede fisicamente autonoma e distaccata rispetto all’ufficio che ha emesso l’atto, ma sempre facente parte dell’Agenzia delle Entrate - possa omaggiare di imparzialità l’esito della procedura senza ledere i diritti di difesa dei contribuenti; soprattutto perché non sarà concessa, dopo la proposizione del reclamo, nessuna forma di integrazione o modificazione delle eccezioni difensive, che dovranno essere identiche a quelle del ricorso successivamente proposto.
A questo punto l’ufficio ha la possibilità di :
1. Accogliere il reclamo, annullando integralmente o parzialmente l’atto contestato, concludendo così la procedura;
2. Respingere il reclamo o la proposta di mediazione; formulare una proposta di mediazione con la rideterminazione delle imposte ;

3. Qualora non vi siano i presupposti per una rideterminazione delle imposte, l’ufficio formula una proposta di mediazione che conferma quanto accertato nell’atto impugnato, al fine di far conseguire al contribuente il solo beneficio della riduzione del 40% delle sanzioni;

4. L’ufficio può anche provvedere al solo diniego.
Il comma 9 dell’art. 17 bis, ci illustra la decorrenza dei termini in base ai quali il reclamo diventa effettivamente ricorso e che dipendono dal verificarsi delle condizioni espresse nei casi suesposti.
Ciò che appare assolutamente non conforme alla natura della norma e alle caratteristiche dell’istituto, è il fatto che l’art. 17 bis, relativamente all’esplicitazione dell’ultimo caso, al comma 9 parla di “ricevimento del diniego”.
Questa può considerarsi, con assoluta certezza, una stortura di grave entità, soprattutto alla luce del fatto che la decorrenza dei termini di costituzione in giudizio, nel caso di diniego dell’ufficio, e quindi i 30 giorni previsti dalla procedura giudiziale vera e propria, decorrono dalla notifica del diniego , che interrompe – se avvenuta per iscritto – il termine di 90 giorni previsti dal reclamo.
Pertanto, risulta oltremodo opportuno rispettare quanto stabilito in materia di notificazioni degli atti dell’Ufficio, al fine di garantire il corretto svolgimento delle varie fasi processuali e pre – processuali, stante anche il diritto di conoscibilità dei contribuenti delle risultanze di istanze proposte in fasi così delicate di avvicendamento al contenzioso.
Non è altrettanto corretto come, nella circolare, l’ufficio espliciti questa forma di conoscibilità dei propri atti attraverso la locuzione “comunicazione del provvedimento con il quale l’ufficio respinge l’istanza prima del decorso dei novanta giorni”.
Ricordiamo, inoltre, che secondo quanto stabilito dal D. Lgs. n. 546/92 all’art. 16 comma 2 “ le notificazioni sono fatte secondo le norme degli artt. 137 e ss. del codice di procedura civile”.
Pertanto, al fine di concedere una corretta difesa, ogni atto e provvedimento emesso dall’ufficio, che sia l’agenzia delle entrate, o che sia l’ufficio legale – “distaccato e autonomo rispetto agli uffici che emettono gli atti” –, dev’essere sempre notificato secondo le norme stabilite dal codice di procedura civile in materia di notificazioni.
Con particolare riferimento al diniego all’istanza, viene precisato che “nel diniego vanno esposte in modo completo e dettagliato le ragioni di fatto e di diritto, poste a fondamento della pretesa tributaria, avendo presente che, il contenuto del diniego, in caso di successiva costituzione in giudizio da parte del contribuente, varrà come atto di controdeduzioni. Il diniego non è impugnabile, essendo tutelato il contribuente dalla facoltà di costituirsi in giudizio”.

2. I presupposti per la mediazione e l’accordo.
I principi in base ai quali l’ufficio valuta la mediazione sono :
- incertezza della questione controversa : in tutti quei casi in cui sussiste una difformità tra le posizioni dell’ufficio e l’orientamento giurisprudenziale sarà opportuno stabilire una mediazione sulla base delle proposte (ove presenti);
- il grado di sostenibilità della pretesa : la proponibilità dell’accordo di mediazione è strettamente connesso – soprattutto relativamente alle questioni di fatto – al prevedibile esito sfavorevole del giudizio di merito;
- principio di economicità dell’azione amministrativa : tale principio risponde al fine deflativo dell’istituto che si propone di evitare – sia sotto un profilo economico che strettamente processuale – l’instaurazione di giudizi.
La circolare specifica che “ in armonia con la ratio del nuovo istituto, la conclusione della mediazione, deve condurre, di norma, alla definizione del rapporto”; questo significa che – come anche specificato dall’ufficio – i casi di mediazione parziale saranno “eccezionali e in presenza di specifiche e motivate ragioni”.
Non si comprende l’intento di tale chiusura, se effettivamente è quello di evitare inutili contenziosi; si ritiene che, anche questa sia una strategia pre-processuale, dal momento che, annullare parzialmente un atto, potrebbe voler dire aver commesso un errore – seppur parziale – al momento dell’emissione, quindi una prevista soccombenza in giudizio. Anche in questo caso, quindi, viene tutelato l’interesse del contraente più forte, senza minimamente valutare che, in presenza di un atto impositivo – e degli importi richiesti a tassazione – il soggetto che voglia intraprendere la strada dell’impugnazione, debba anche valutare l’economicità dell’operazione e le possibilità economiche ex tunc.
In tutti i casi in cui risulta possibile un accordo di mediazione, l’ufficio invita il contribuente al contraddittorio, basando il confronto anche con riferimento ad eventuali altri rimedi previamente esperiti – come l’adesione - , in particolare soffermandosi sugli esiti e sulle risultanze dei precedenti tentativi di accordo, redigendone apposito verbale sottoscritto dalla parte (o dal difensore) e “dal dirigente o dal funzionario incaricato del contraddittorio”.
Anche qui, non si può omettere di fare una considerazione, se non altro per espressa analogia con uno dei problemi più antichi del mondo tributario: dire che il verbale è sottoscritto dal dirigente o dal funzionario – incaricato del contraddittorio – non chiarisce quale delle due figure possiede il titolo per valutare l’istanza di reclamo, fino al punto da assumersi la responsabilità di un eventuale accordo.
Con quali caratteristiche professionali e per mezzo di quali percorsi specifici, finalizzati al deflazionamento del contenzioso, l’incaricato svolge le sue funzioni conciliative?
In buona sostanza, visto che la sottoscrizione dell’accordo di mediazione, prevede la rinuncia a qualsivoglia forma di procedimento giudiziale, il contribuente quale garanzia di competenza riceve dall’”ufficio legale”?

3. Le modalità di conclusione dell’accordo: il perfezionamento della mediazione.
La procedura di mediazione si perfeziona attraverso il versamento dell’intero importo dovuto o, in alternativa, con il pagamento della prima rata, entro 20 giorni dalla conclusione della mediazione. In caso di avvenuta mediazione le sanzioni sono applicate nella misura del 40% delle somme irrogabili, in rapporto all’ammontare dei tributi risultanti dalla mediazione.
L’accordo si conclude con la sottoscrizione da parte del contribuente e dell’Ufficio, di un atto contenente :
a. la rideterminazione degli importi  tributo, interessi, sanzioni;
b. le modalità di versamento  ed eventualmente le modalità di rateizzazione
Può avvenire che l’accordo si perfezioni mediante proposta/accettazione formulata da una delle parti; in questo caso, la decorrenza dei termini (20 giorni) per il versamento delle somme decorre da:
- quando la proposta è dell’ufficio: dalla data di spedizione dell’atto da parte del contribuente;
- se la proposta era contenuta nell’istanza presentata dal contribuente: dal ricevimento dell’atto dell’ufficio.
Una volta conclusa con la sottoscrizione, la mediazione si perfeziona con il pagamento delle somme dovute.
Come si può notare, anche in questo caso, oltre che ad un palese vantaggio per l’ufficio, non può parlarsi di “ricevimento dell’atto”, in quanto l’istituto prevede, in caso di mancato pagamento – anche di una sola delle 8 rate previste (nei casi di pagamento rateale), la decadenza dal beneficio della rateazione e la contestuale iscrizione a ruolo dell’intero importo residuo e di una sanzione pari al 60% delle somme ancora dovute.
Pertanto, sarà opportuno notificare ogni atto da parte dell’agenzia delle entrate, onde evitare l’instaurarsi di paralleli giudizi che investiranno, oltre che la competenza tributaria, anche la responsabilità civile e la legittimità costituzionale.
L’accordo di mediazione si perfeziona con il versamento dell’intero importo dovuto, ovvero della prima rata – nei casi di pagamento rateale, che, in applicazione dell’art. 48 del D. Lgs. 546/92 può avvenire “in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo”.
Il pagamento può essere effettuato anche tramite compensazione (ai sensi dell’art. 17 del D. Lgs. n. 241 del 9 luglio 1997) o mediante scomputo di quanto già eventualmente versato.
Risulta così importante rilevare che:
1. a seguito del perfezionamento della mediazione, il rapporto giuridico sottostante si intende definito e non ulteriormente contestabile;
2. in ipotesi di pagamento rateale, l’atto originariamente impugnato perde efficacia a seguito del pagamento della prima rata;
3. l’accordo di mediazione – secondo quando riportato nella circolare 9/E – costituisce titolo esecutivo e, pertanto, a fronte del mancato pagamento di una rata l’ufficio procede alla riscossione delle somme dovute, a seguito della quale, verrà emessa una cartella di pagamento impugnabile solo per vizi propri.
La circolare, infine, specifica che “gli atti emessi in esito al procedimento amministrativo di mediazione, che non sono impugnabili, possono essere portati a conoscenza del contribuente nella forma di notificazione prevista per gli atti tributari di cui all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 – oppure – utilizzando la PEC che ne assicura la conoscenza certa e in tempo reale”.
4. La costituzione in giudizio e le spese processuali.
L’art. 22 del D. Lgs. 546/92 stabilisce i termini di costituzione in giudizio del ricorrente che, con riferimento all’istituto in esame, decorrono dal giorno successivo a quello:
 dei 90 giorni dall’invio dell’istanza senza che sia stato notificato un successivo accordo o diniego;
 di notificazione del diniego;
 di notificazione dell’accoglimento parziale.
Ricordiamo che il termine di costituzione in giudizio – essendo un termine processuale – è perentorio.
Secondo quanto chiarito dalla circolare, la procedura di mediazione non soggiace al termine sospensivo compreso tra il 1° agosto e il 15 settembre; diversamente dal termine di costituzione in giudizio, che essendo un termine processuale segue la disciplina dell’art. 22 del D. Lgs 546/92.
Ad esempio:
Istanza di mediazione inviata il 10 maggio 2012 e ricevuta dall’ufficio il 15 maggio 2012;
il termine di 90 giorni decorre dal 15 maggio 2012 e – stante l’inapplicabilità della sospensione feriale – scade il 7 agosto 2012;
il termine di costituzione in giudizio decorre a partire dal 16 settembre 2012.
Dulcis in fundo, il comma 10 dell’art. 17 bis prevede, sempre ai fini di deflazionamento del contenzioso, una chiosa relativa alle spese processuali: infatti, a titolo di rimborso delle spese del procedimento di mediazione, il legislatore fissa un ristoro del 50% delle spese che spettano alla parte soccombente, a seguito di sentenza sfavorevole.
Fuori dai casi di soccombenza reciproca , i giudici possono “motivatamente” compensare le spese; motivi che andranno ricercati nelle ragioni che hanno indotto l’ufficio a rigettare l’istanza del contribuente.
In conclusione, stante i dubbi e le perplessità relativi all’effettiva utilità dell’inserimento di un nuovo istituto che risulta essere solo una dilatazione temporale, oltre che una sottrazione di costituzionalità dei diritti dei contribuenti, chi scrive si continua ad interrogare sul motivo per il quale, nella materia tributaria, si valuti sempre l’introduzione di una novità, piuttosto che la revisione di un processo che ad oggi non gode ancora dei benefici concessi nelle altre branche del diritto.


9. I dubbi dell’istituto
Il nuovo istituto del reclamo e della mediazione, pur apparendo, in prim’acchito, di facile applicazione, presentano non poche perplessità e problematiche interpretative, oltre che applicative.
Vediamo in particolare, con riferimento ad alcune singole fattispecie, quali potrebbero essere gli interrogativi, ad oggi ancora in attesa di risposta.
a. il reclamo e il ruolo:
il ruolo, a differenza della cartella di pagamento, è un atto emesso dall’Agenzia delle Entrate, impugnabile ai sensi dell’art. 19 del D. Lgs 546/92 e, quindi, soggetto alla procedura di reclamo; rileviamo che il ruolo, è basato su valutazioni di calcolo, fornite dalle risultanze dei dati messi a disposizione dai contribuenti con i dati in possesso dell’ufficio.
Se l’iscrizione a ruolo avviene mediante un calcolo di somme effettivamente dovute, in quale modo ci sarà la possibilità di ricalcolare le imposte?
Perdippiù, è ammissibile che, nelle more del reclamo, l’Agenzia delle Entrate possa procedere all’iscrizione a ruolo? Non sarebbe forse il caso di prevedere una legittimazione dell’iscrizione a ruolo, solo a seguito del decorso dei 90 giorni previsto per l’esperimento della procedura di mediazione?
Ricordiamo che, ad esempio, nei casi in cui il ruolo si è formato ex art. 36 bis del D.P.R. 600/73 e 54 bis del D.P.R. 633/72, ovvero rispettivamente in base alla liquidazione e al controllo formale, la riscossione non è frazionata, ma avviene per intero – ex art. 14 del D.P.R. 602/73; in questo caso sarebbe opportuno prevedere la sospensione della riscossione ex art. 39 del D.P.R 602/73.
b. la rettifica della dichiarazione – il limite quantitativo:
nel caso di rettifica delle dichiarazioni, ed in particolare, nei casi in cui la rettifica riguardi una riduzione delle perdite dichiarate dal contribuente e l’accertamento non sia riferito a maggiori imposte ma ad una riduzione delle perdite, quale limite quantitativo sarà valutato ai fini della proposizione dell’eventuale ricorso e, quindi, all’utilizzo del reclamo – che prevede tassativamente il limite di € 20.000,00 come indice massimo quantitativo per l’attivazione dell’istituto?
Da una lettura della Circolare n. 48/E del 2011 dell’Agenzia delle Entrate, il valore di riferimento ai fini dell’applicabilità dell’istituto è costituito da “un’imposta virtuale”, che si identificherebbe come “la maggiore imposta effettiva, relativa alla differenza tra la perdita dichiarata e la minore perdita accertata”.
Anche in questo caso, parlare di “imposta virtuale” non pone il contribuente nella posizione di poter esperire ogni mezzo a tutela della pretesa impositiva, stante, in caso di applicabilità del reclamo, la totale enunciazione dei motivi di impugnazione, già nella fase della mediazione; a parer mio, ben si utilizzerà, in questi casi, solo l’istituto dell’adesione.
c. oggetto della domanda – “petitum” - :
la formulazione dell’oggetto della domanda, nei casi di reclamo, fa scaturire come primo effetto, quello della non proponibilità dell’impugnazione relativamente a ciò che non è stato contestato in sede di reclamo. Ciò significa che, se nel reclamo, si insiste esclusivamente per il parziale annullamento dell’atto, nell’eventuale successiva fase giurisdizionale, non potrà essere formulata una diversa domanda di annullamento.
Questo è, senz’altro, una lesione – ripetutamente verificata nell’ambito dell’istituto – del diritto alla difesa del contribuente.
d. il reclamo avverso il silenzio-rifiuto alle istanze di rimborso:
Come noto, il silenzio-rifiuto a fronte delle istanze di rimborso non può essere compreso tra gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate, in quanto un atto vero e proprio, materialmente non esiste; in virtù del rinvio operato dall’art. 19 del D.lgs. 546/92, tali atti vengono inseriti tra quelli impugnabili, al fine di salvare la ratio della norma che ha come unico fine quello di evitare l’instaurarsi di un contenzioso; anche in questo caso, nonostante la norma inserita nel D. Lgs. 546/92, preveda l’espressa indicazione degli atti avverso i quali è possibile e obbligatorio esperire il reclamo prima e la mediazione poi, qualificandoli come “atti emessi dall’Agenzia delle Entrate”, anche per tali atti diventa obbligatorio l’istituto del reclamo.
Peraltro, viene precisato come la nuova fattispecie trova applicazione per quelle controversie in relazione alle quali, alla data del 1° aprile 2012, non siano decorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di rimborso. Invece, laddove alla data del 31 marzo 2012 siano già trascorsi i 90 giorni, il diniego non potrà formare oggetto di reclamo. Tale differenziazione pone sicuramente in una posizione di vantaggio i contribuenti che, più di recente, sono stati alle prese con la presentazione di una istanza di rimborso. Infatti, in base al testo normativo di cui all’art. 17-bis del D. Lgs. n. 546/1992, l’intera procedura di reclamo deve chiudersi in 90 giorni rispetto ad un iter contenzioso solitamente ben più problematico in termini di tempistica. Questo, naturalmente, laddove in sede di reclamo l’Ufficio deputato alla valutazione dello stesso convenga sulla esistenza del presupposto per il rimborso.
e. Il profilo di incostituzionalità del reclamo obbligatorio.
L’art. 17 bis, al comma 2, stabilisce che “ la presentazione del reclamo è condizione di ammissibilità del ricorso. L’inammissibilità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.”
Di recente emanazione, la circolare 9/E dell’Agenzia delle Entrate del 16 marzo 2012 - esplicativa dell’istituto - si propone l’intento di dare indicazioni operative e chiarificatrici soprattutto relativamente alle condizioni di ammissibilità ed ai presupposti in base ai quali sarà obbligatorio attivare l’istituto.
La circolare chiarisce subito che “la previsione normativa della possibilità, per l’Agenzia delle Entrate, di esaminare preventivamente le doglianze che il contribuente intende proporre innanzi al Giudice tributario risponde ad esigenze riconosciute come costituzionalmente rilevanti. In proposito si ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, il legislatore può ritenere opportuno, nell’interesse dello stesso ricorrente, che la fase giudiziaria sia preceduta da un esame della potenziale controversia in sede amministrativa, oltre che allo scopo di realizzare la giustizia nell’ambito della pubblica Amministrazione, anche per evitare lunghe e dispendiose procedure giudiziarie, che potrebbero compromettere la funzionalità del servizio.”(Corte Costituzionale, sentenze n. 93 del 26 luglio 1979 e n. 15 del 18 gennaio 1991).
Appare così, già dalle prime righe, una linea difensiva dell’Ufficio che, consapevole della lesione del diritto alla difesa in arrivo con l’applicazione del reclamo, tenta addirittura di trovare un sostegno nella giurisprudenza di legittimità.
In realtà, già da una prima lettura della sola norma, appare evidente che la circostanza relativa al contenuto del reclamo – che ai fini della sua ammissibilità dev’essere identico a quello del ricorso eventualmente proposto nella fase giudiziale successiva – vìola palesemente il diritto alla difesa di ogni contribuente raggiunto da un avviso di accertamento; non si comprende, infatti, quale possa essere questa “esigenza riconosciuta come costituzionalmente rilevante” e soprattutto in quale modo si concretizza, dal momento che la tesi difensiva presentata nel reclamo – e quindi nella fase cosiddetta amministrativa – risulta conoscibile ed esposta già in una fase che non prevede la valutazione della fattispecie in presenza di una figura terza e imparziale - come il Giudice tributario – come prescrive la Costituzione all’art. 111.
Inoltre, il richiamo alle sentenze citate non è confacente con quanto espresso nella circolare, anzi, da un’attenta lettura delle stesse si ricava che “la questione risulta fondata. Questa Corte ha bensì affermato ripetutamente la legittimità in via di principio di forme di accesso alla giurisdizione, condizionate al previo esperimento di rimedi di carattere amministrativo. Essa è però giunta più volte, soprattutto in riferimento all’art. 24 della Costituzione, a dichiarare l’illegittimità di tali previsioni, quando esse comportino una compressione penetrante del diritto di azione, ostacolandone o rendendone difficoltoso l’esercizio, in particolare comminando la sanzione della decadenza. Ne deriva così la definitiva perdita del diritto.”(Corte Costituzionale, sentenza n. 530 del 11 dicembre 1989 richiamata da n. 15/1991).
Parimenti, l’istituto in esame, prevede, al citato comma 2, la sanzione dell’inammissibilità, che ricordiamo preclude, in modo definitivo, qualsiasi tipo di azione a difesa dei diritti del contribuente, dunque la perdita di ogni facoltà giudiziale.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 15/1991, tratta la violazione degli artt. 3, 24,113 della Costituzione, relativamente ad un ricorso esperito contro le Poste, per il quale il giudice di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 del testo unico delle disposizioni legislative in materia postale “nella parte in cui preclude l’azione giudiziaria contro l’amministrazione per il servizi postali, se prima non sia stato presentato reclamo in via amministrativa e l’amministrazione non abbia provveduto nel termine di sei mesi”.
In diritto, la Corte afferma che “la questione è fondata. Anche se il termine fosse ridotto in una misura più ragionevole, l’introduzione nell’art. 20 del codice postale di una disciplina analoga a quella prevista dall’art. 443 cod. proc. Civ. non troverebbe giustificazione nella ratio di favore per il cittadino”.
Parallelamente, appare opportuno evidenziare che, nessun istituto giurisdizionale attualmente in vigore prevede una sanzione così grave ed invalidante a seguito del mancato esperimento della fase amministrativa; le sentenze citate dalla circolare mostrano, infatti, come sarebbe del tutto ingiustificato oltre che illegittimo precludere la possibilità di difesa sic et simpliciter, soprattutto in una fase così delicata come quella che precede l’ instaurazione di un eventuale giudizio a fronte di un accertamento ancora da valutare.
Tanto vero che, in materia di diritto del lavoro, l’art. 443 c.p.c. prevede che “Se è normativamente prevista una procedura amministrativa di conciliazione, essa deve essere esperita prima dell’introduzione del giudizio a pena di improcedibilità di quest’ultimo. Il Giudice adito, in quest’ultimo caso, rilevato l’omesso esperimento della fase procedimentale per la composizione amministrativa, dichiara l’improcedibilità della domanda, sospendendo il giudizio e fissando all’attore un termine di sessanta giorni per la presentazione del ricorso amministrativo.”
La giurisprudenza della Suprema Corte è univoca nell’affermare che la questione attinente alla procedibilità della domanda ex art. 442 c.p.c. per mancata attivazione deprocedimento amministrativo ex art. 443 c.p.c., è sottratta alla disponibilità delle parti, essendo essa rimessa esclusivamente al potere-dovere del giudice del merito, da esercitarsi, ai sensi del 2º comma dell’art. 443 citato, solo nella prima udienza di discussione del giudizio di primo grado, e non in ogni stato e grado del giudizio:
“Nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, la questione di procedibilità della domanda giudiziaria in relazione al preventivo esaurimento del procedimento amministrativo è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa al potere-dovere del giudice del merito, da esercitarsi ai sensi del 2º comma dell’art. 443 c.p.c., solo nella prima udienza di discussione del giudizio di primo grado, con la conseguenza che se nella prima udienza di discussione il giudice abbia omesso la dichiarazione di improcedibilità, sospendendo il giudizio e fissando un termine perentorio per il ricorso in sede amministrativa, prevale l’azione giudiziaria, non essendo opponibili decadenze di ordine processuale (Cass., sez. lav., 07-06-2003, n. 9150; conforme, Cass. 18.01.1991 n. 427).
La ratio di questa speciale normativa può agevolmente individuarsi nella peculiarità delle materie regolate – ricordiamo che siamo in presenza di diritti indisponibili – , rispetto alle quali è stata individuata una soluzione che, pur tenendo conto dell’esigenza di non esporre gli enti erogatori delle prestazioni ad un inutile quanto dispendioso contenzioso giudiziario ed ai conseguenti effetti negativi sulla finanza pubblica, in situazioni suscettibili di risoluzione in sede amministrativa, evita tuttavia di penalizzare eccessivamente i soggetti istanti, titolari di interessi costituzionalmente protetti.
Emerge, dunque, un netto contrasto tra la ratio della circolare – ed i fini della stessa – e quanto espressamente riportato nella giurisprudenza citata dall’Ufficio; il dato comune è che comminare l’inammissibilità in caso di mancato reclamo darebbe luogo ad una irragionevole discriminazione tra i diritti dei contribuenti e le potestà dell’agente impositore.
Alla luce di quanto appena espresso, ma soprattutto di quanto illustrato dalla circolare con le sentenze citate, il profilo invalidante dell’inammissibilità del ricorso in assenza di reclamo appare del tutto illegittimo e incostituzionale.
Ne deriva, una totale incertezza della tutela giurisdizionale del contribuente, atteso che,allo stesso verrebbe preclusa la facoltà di adire la competente autorità giudiziaria, in ossequio ai principi sanciti dalla Costituzione.

f. Il reclamo come istanza di autotutela obbligatoria
Stando al tenore della norma – e come specificato relativamente alla natura dell’istituto del reclamo, inteso come un’istanza di autotutela obbligatoria – sembra doversi intendere che, l’Agenzia, quando parla di annullamento totale o parziale, possa ridurre in parte la propria pretesa, non solo limitatamente all’aspetto quantitativo, ma anche in merito ai contenuti e alle motivazioni dell’atto.
Il dubbio, quindi, nasce spontaneo: se, a seguito della riduzione della pretesa impositiva, il contribuente decida comunque di instaurare un giudizio, si creerà – inevitabilmente – un’incongruenza tra il contenuto del ricorso e il contenuto dell’atto reclamato (parzialmente modificato). Sappiamo bene che il reclamo – per espressa disposizione normativa - dev’essere corrispondente al ricorso successivo; quindi in questi casi, come si concilierà la norma con la fattispecie in esame?
Sarebbe forse opportuno, a parere di chi scrive, puntualizzare che l’annullamento parziale dell’atto preveda l’acquiescenza del contribuente relativamente alla parte non annullata; oppure, diversamente, prevedere in questi casi, la possibilità di integrare i motivi contenuti nell’atto.

g. il reclamo e la cartella di pagamento
Con il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate (prot. n.2012/46586) datato 30 marzo 2012, vengono introdotte importanti novità sui profili applicativi delle cartelle di pagamento. Le motivazioni delle modifiche apportate ai fogli avvertenze sono riconducibili alle disposizioni contenute nell’art. 17 bis del D.Lgs. n. 546/92 – introdotto dall’articolo 39, comma 9, del dl 98/2011 – relative al reclamo ed alla mediazione, in base al quale ogni contribuente che intenda proporre ricorso avverso il ruolo a seguito del quale è emessa la cartella di pagamento notificata a decorrere dal 1° aprile 2012, per le impugnazioni di valore non superiore a ventimila euro, è tenuto a presentare preliminarmente reclamo alla Direzione provinciale o regionale che ha emesso il ruolo.
Nel terremoto normativo che assale la moltitudine di contribuenti e professionisti, vengono ancora apportate importanti modifiche relativamente alle cartelle di pagamento e alle indicazioni in esse esplicitate.
Dato per assodato che – con la circolare “esplicativa” n. 9/E/2012 dell’Agenzia delle Entrate – tra gli atti impugnabili e soggetti al reclamo obbligatorio c’è anche il ruolo, dall’agenzia delle Entrate, il provvedimento del 30 marzo 2012 del Direttore dell’Agenzia delle Entrate – prot. n. 2012/46586 – nelle “avvertenze, precisa che: “questa cartella di pagamento può essere oggetto di reclamo – mediazione solo per vizi riguardanti il ruolo e non per contestazioni relative ai vizi propri della cartella (ad esempio un errore di notifica)”.
Altresì importante risulta evidenziare che, le modifiche apportate nella pagina delle “avvertenze” della cartella di pagamento, risultano pressoché tardive, stante, ormai, l’attivazione della procedura obbligatoria in vigore già da qualche giorno.
Importante ricordare che il termine che indica la soggezione della procedura del reclamo è costituito dal giorno in cui il contribuente riceve l’atto impugnabile; questo significa, che se l’agente della riscossione ha emesso una cartella, ad esempio in data 15 marzo 2012, la stessa avrà necessariamente dei vizi propri, in quanto la modifica è stata apportata in data 30 marzo 2012, con il provvedimento citato.
La Corte di Cassazione a sezioni Unite – n. 16412/2007 – ha consolidato il principio in base al quale: "La correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.
Nella predetta sequenza, l'omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell'atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l'atto consequenziale notificatogli - rimanendo esposto all'eventuale successiva azione dell'amministrazione, esercitabile soltanto se siano ancora aperti i termini per l'emanazione e la notificazione dell'atto presupposto - o di impugnare cumulativamente anche quest'ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria: con la conseguenza che spetta al giudice di merito - la cui valutazione se congruamente motivata non sarà censurabile in sede di legittimità - interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell'atto consequenziale in base all'una o all'altra opzione.
L'azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell'ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi dì litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente creditore".
Infatti, fino ad oggi le innumerevoli fattispecie di cartelle notificate in assenza di atto prodromico hanno prodotto un atteggiamento consolidato dei difensori, i quali, impugnavano – con ricorso – la cartella per vizi propri e contestualmente – ma in via subordinata – il merito della stessa.

10. Quadro sinottico delle sanzioni


Si allega al presente, il quadro sinottico delle sanzioni applicabili relativamente ad ogni istituto deflativo, attualmente in vigore con l’aggiunta dell’istituto del reclamo obbligatorio che dovrà essere attivato con riferimento agli atti notificati a partire dal 02 aprile 2012.
Come si evince dal prospetto, ogni istituto deflativo del contenzioso prevede una riduzione delle sanzioni contestuale alla sua applicazione.
Appare opportuno sottolineare che, la norma che regola ogni singolo strumento pre-processuale, prevede espressamente tale riduzione, contrariamente a quanto si verifica con l’istituto del reclamo.
È facile notare, al comma 8 dell’art. 17 bis, che “si applicano le disposizioni dell’art. 48, in quanto compatibili”.
Questo significa che, non è garantita la misura percentuale di riduzioni delle sanzioni, ma vi è all’interno del dettato normativo, soltanto un rinvio, previo giudizio di compatibilità delle disposizioni, il che non assicura nessuna certezza nella sua applicabilità.
A ben vedere, l’incentivo è subito tramutato in forte deterrente, se si considera, al comma successivo, come, nei casi di soccombenza di una delle parti, la condanna alle spese è maggiorata del 50% a titolo di rimborso delle spese di procedura del reclamo. È prevista anche la famosa “compensazione” delle spese, previa però verifica da parte del giudice dell’effettiva sussistenza dei motivi che hanno indotto la parte a rifiutare, in ultima analisi, la proposta dell’Ufficio.







11. Conclusioni
Dopo aver analizzato l’istituto del reclamo, che ricordiamo ha debuttato il 1° aprile 2012 e quindi, relativamente a tutti gli atti notificati dal 2 aprile 2012, emergono notevoli profili di criticità e di incertezza che non risolvono le problematiche attuali relative alla moltitudine e complessità dei contenziosi, sia dalla parte del contribuente, sia dalla parte dell’Amministrazione finanziaria.
L’intento legislativo è sicuramente ispirato sì al tentativo di un bonario componimento delle controversie in atto – seppur delimitato a determinati parametri, sia in termini di soglie economiche, sia in termini di imposte – ma, appare evidente, che nonostante il profilo positivo che si vuol dare al nuovo istituto, la gran parte del “sentimento” ce la debbano mettere il contribuente da un lato, e l’amministrazione dall’altra.
Mi riferisco, soprattutto alla fase della mediazione, a quei principi, tanto rincorsi nel corso dell’evoluzione legislativa tributaria, di collaborazione, buona fede, correttezza e ragionevolezza.
Sicuramente esperire un tentativo di “conciliazione” in via preliminare al ricorso introduttivo, costituisce un aspetto positivo delle vicende giudiziali tributarie, ma forse, prim’ancora dell’inserimento di nuove norme – che peraltro ripercorrono strade recanti enormi successi negli ultimi anni, come ad esempio l’istituto dell’adesione e gli altri strumenti deflativi – sarebbe opportuno procedere ad una “rivisitazione” delle norme esistenti.
In altri termini, piuttosto che inserire, prima della proposizione del ricorso, un istituto “bloccante” ai fini di un dispendio di energie economiche e giudiziali, perché, ad esempio non rivedere la fase antecedente all’emissione degli atti di accertamento?
Occorre notare, infatti, che l’inasprimento e l’aumento degli accertamenti sicuramente risponde all’esigenza della tanto esercitata “lotta all’evasione”, ma parimenti non è prevista una altrettanto rinforzata e decisa tutela dei contribuenti, che ad oggi, già a stento riescono a far valere i propri diritti mediante, ad esempio, le norme presenti all’interno dello Statuto del Contribuente.
Proprio in base alle finalità dell’art. 17 bis – inteso come strumento inibitore degli accessi al contenzioso – sarebbe auspicabile trovare una via d’incontro relativamente alla fase di riscossione che prende strada decorsi 60 giorni dalla notifica dell’atto di accertamento.
Infatti, ricordiamo che, decorso il termine entro cui è possibile presentare il reclamo, le pretese erariali possono, in tutto o in parte, essere soddisfatte anche coattivamente, oltre al fatto che ben potrebbero essere attivate le misure cautelari e conservative.
In questo senso, sarebbe opportuno inserire un intervento legislativo, volto quanto meno, ad inibire la fase della riscossione in pendenza di reclamo ex art. 17 bis.
Inoltre, la norma, appena nata, precisa che l’istituto che si occuperà della valutazione dei reclami, è autonomo ed indipendente rispetto all’Ufficio che ha emesso l’atto di accertamento.
Come può un ufficio – seppur autonomo e indipendente – facente parte dello stesso gruppo impositore (peraltro contraente più forte quanto a strumenti accertativi, collaborazioni pubbliche, raccolta dati) valutare asetticamente e imparzialmente, una proposta basata su un atto emesso, magari da un ex collega d’ufficio?? E come potrebbe, lo stesso operatore, predisporre una proposta di mediazione, senza aver preventivamente, come accade nel processo civile, fatto le opportune valutazioni alla luce di una preparazione mirata a ricoprire il ruolo di mediatore?
Ma soprattutto, chi si occuperà personalmente di valutare l’opportunità di una definizione transattiva pregiudiziale? Con quali competenze??
Non sarebbe forse arrivato il momento di ristabilire i ruoli e le competenze all’interno dell’Amministrazione finanziaria?? Magari anche rispettando i principi sanciti dalla L. 241/90 in materia di trasparenza, oltre che i rilievi forniti dallo Statuto del Contribuente, ormai divenuto esclusivamente una fonte inutilizzata e neanche presa in considerazione.
La notizia relativa al distacco degli uffici del contenzioso, rispetto agli uffici da cui promanano gli atti di accertamento, non provoca alcun sollievo nei contribuenti; non v’è traccia alcuna dell’imparzialità che dovrebbe regnare sovrana nella fase giudiziale.
La circostanza relativa al ridimensionamento delle sanzioni, in caso di reclamo – che seguono la disciplina della conciliazione giudiziale ex art. 47 d.Lgs 546/92, in misura pari al 40% - non garantisce la preferenza dell’istituto, rispetto, ad esempio, all’istituto dell’adesione, che accoglie successi da una quindicina di anni.
Anzi, utilizzare il reclamo e non l’adesione, significherebbe, in virtù dell’espresso rinvio all’art. 18 del D.Lgs 546/92 – contenuto nel comma 6 dell’art. 17 bis – esporre in via anticipata, rispetto al momento del contraddittorio giudiziale, pregiudicando qualsiasi strategia difensiva e ponendo l’Ufficio – già contraente più forte – in una posizione di vantaggio rispetto al contenuto del ricorso e alle eccezioni del contribuente.
L’istituto del reclamo, pertanto, non risulta essere uno strumento deflativo, come piace catalogarlo alla “parte di potere”, ma altresì, risulta una lungaggine processuale a puro ed esclusivo vantaggio dell’Ufficio.
Appare, così, enormemente sconcertante, come il legislatore si preoccupi di inserire dei nuovi istituti, configuranti, in alcuni casi, delle fattispecie già proposte o similari, piuttosto che preoccuparsi, invece, di stabilire – come peraltro la Costituzione prescrive – un sistema giudiziario basato realmente sull’imparzialità e sulla terzietà degli organi giudicanti.
Nonostante i tentativi degli ultimi mesi, pare che non ci si voglia ancora rendere conto delle violazioni persistenti nei confronti dei contribuenti; un esempio lampante è costituito da tutta la parte istruttoria del processo tributario, che, nonostante l’espresso rinvio formulato nell’incipit del D. Lgs. 546/92, non gode ancora degli stessi diritti del processo civile.
Anche l’istituto della mediazione ha radici civilistiche, ad oggi pare con ottimi risultati.
Ciò che ancora però non si comprende, è come mai, in un sistema impositivo gestito da chi verifica la capacità contributiva dei contribuenti, la capacità produttiva delle società, le differenze relative alle compagini sociali, i tenori di vita e quindi monitorizza l’andamento economico del Paese, non ci si ponga il problema delle competenze dei propri operatori, l’utilizzo, ed in alcuni casi, la modifica o l’integrazione delle norme già esistenti in materia giudiziale, prim’ancora di predisporre dei rimedi alle situazioni di “oggettive” violazioni di norme.
Ebbene non dimenticare che, anche il reclamo, come gli altri strumenti a disposizione dei contribuenti, è stato creato in uno scenario che come presupposto ha un atto di accertamento già notificato; questo rilievo, evidenzia una latente discrasia tra gli intenti di deflazione del contenzioso – sbandierati in ogni provvedimento legislativo – e l’effettivo utilizzo degli strumenti – ormai sempre gli stessi – a difesa dei contribuenti.
Basterebbe che ci fosse – effettivamente – un organo terzo ad esercitare la mediazione fiscale; ad esempio non sarebbe affatto una cattiva idea, riattivare la figura del Garante del Contribuente – già presente sulla scena tributaria – che, peraltro riceve già nel panorama fiscale “un potere di iniziativa di ufficio eteronoma”, ad esempio nell’autotutela – si è, invece, ultimamente vista depauperata di due unità, a fronte di un risparmio relativo al compenso di due dei tre soggetti che componevano il collegio.
Il Garante del Contribuente che, a partire dal 1 gennaio 2012, è diventato organo monocratico, non è stato incluso nella procedura di mediazione, nemmeno relativamente alla fase introduttiva, relativa al rispetto delle forme e dei termini del reclamo.
Sembra del tutto illogico, ma tant’è. Colui che si fa portatore sano dei diritti dei contribuenti, non parteciperà alla fase dell’incontro di volontà, tra l’ufficio e le parti.

Avv. Maurizio Villani Avv. Francesca Giorgia Romana Sannicandro

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