L’evoluzione tecnologica e lo sviluppo delle attività produttive degli ultimi anni hanno fatto in modo che emergessero nuovi modelli contrattuali in grado di seguire l’evoluzione della prassi e far sì che trovassero un fondamento, seppur non normativo, all’interno del nostro ordinamento in virtù degli interessi meritevoli di tutela che esso persegue.
Tra queste nuove figure ben può ravvisarsi quella del contratto di engineering, il quale può essere definito come il contratto attraverso il quale un committente, che intenda realizzare un rilevante intervento di stampo urbanistico, idraulico, industriale, agricolo o qualsivoglia opera di utilità collettiva, affida ad un’impresa, detta di engineering, il compito di progettarne l’installazione, di eseguirne per intero i lavori, di avviarne il processo di lavorazione e di seguirne la manutenzione, con ciò contribuendo anche all’impostazione del futuro sfruttamento dell’opera prodotta, trasferendo il cd. know-how, vale a dire quel complesso di conoscenze che la società possiede in ordine all’opera realizzata.

Nonostante l’apparenza di una definizione esaustiva, come quella predetta, e a cui dottrina e Giurisprudenza usano far riferimento, non sono esigui i dibattiti sorti attorno a tale figura contrattuale, in merito alla sua natura giuridica, alle differenze e alle interferenze con altri tipi negoziali e alla sua travagliata evoluzione giurisprudenziale riguardante la liceità delle cd. società di engineering.

In particolare, la risalente legge 1815/1939, all’art. 2, vietava l’esercizio in forma societaria delle professioni cd. protette, con ciò specificando la sola liceità di associazioni di professionisti che utilizzassero, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i terzi, esclusivamente la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, etc.”, seguito dal nome e dal titolo professionale di ogni singolo titolare.
Orbene, durante i primi anni di vigenza della norma, la Giurisprudenza, con argomentazioni di stampo semplicistico, tentò di giustificare il divieto di cui all’art. 2 L. 1815/1939 alla luce dell’incompatibilità delle società di/i> engineering con il sistema giuridico interno. In particolare, l’argomentazione secondo la quale le società di ingegneria mirassero a progettare opere di ingegneria civile ed industriale condusse la prima Giurisprudenza a sancire la nullità degli atti costitutivi di tali società per contrarietà a norme imperative, nonché dei rapporti instaurati con i terzi.

Tuttavia, e soprattutto a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 17 del 1976, gli orientamenti della Corte Suprema muteranno, aprendo così la strada ad una favorevole interpretazione circa la liceità dei contratti di engineering, e facendo da apripista all’abrogazione dell’art. 2 L. 1815/ 1997 per merito della legge Bersani (Legge 266/ 1997).

La Corte Costituzionale, infatti, con una sentenza interpretativa di rigetto, fu chiamata a sindacare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 L. 1815/1939 contro l’art. 41 Cost., sollevata dal Pretore di Genova con ordinanza del 20.04.1974.
In particolare, il giudice a quo, sottolineava come “la concezione individualistica dell’attività professionale non sia rispondente alle finalità peculiari della progettazione industriale che non può di fatto essere affidata a singoli professionisti, ma al contrario postula una complessa organizzazione di uomini e mezzi che soltanto un’attività strutturata su base imprenditoriale può garantire”. Il Pretore di Genova assumeva, inoltre, che l’attività professionale spersonalizzata costituisse mera concezione arretrata ed anacronistica e soprattutto lesiva della libera iniziativa economica ex art. 41 Cost.
Investita della questione, la Corte Costituzionale, con la citata sentenza del 1976, sancì la costituzionalità del’art. 2 L. 1815/1939, seppur invocando un intervento del legislatore al fine di correggere lo stato inadeguato della normativa, evidenziando come non fosse preclusa l’attività in forma associativa, anche se subordinata all’adozione della denominazione di “studio” seguita dal nominativo ed dal titolo dei singoli componenti.

La Giurisprudenza di merito, seguita da quella di legittimità, trovò soltanto nella predetta pronuncia della Corte Costituzionale piena legittimazione alla propria tesi, già in vigore da alcuni anni. In particolare, si sono succedute varie argomentazioni al fine di sancire la legittimità delle società di engineering.

La prima faceva leva sulla non vigenza della legge 1815/1939, in quanto, vietando, tra le altre norme, ai membri delle comunità israelite di svolgere in anonimato le attività loro vietate, era nata in un contesto razziale, oggi superato.
La seconda argomentazione, fatta propria dalla Pretura di Genova summenzionata, traeva linfa dall’incostituzionalità della norma.
La terza, sorta dopo la declaratoria di costituzionalità del 1976, attribuiva rilievo al dato qualitativo, ritenendo che le società vietate fossero solo quelle la cui attività potesse configurarsi come corrispondente a quella che può essere prestata, individualmente o congiuntamente, da uno o più professionisti individuali di cui all’art. 1 l. 1815/1939 (Corte di Cassazione 30.01.1985 n. 566).
Infine, l’ultima argomentazione riguardava la sopravvenuta abrogazione della legge del 1939 per merito di leggi speciali. In special modo, con sentenza n. 7263 del 1986, la Suprema Corte ritenne abrogata la predetta normativa, a seguito dell’entrata in vigore delle leggi 92/1972 e 17/1981, in ordine alla liceità delle s.p.a. e, in accordo ad un Consiglio di Stato del 1990, del consulting engineering, di cui si dirà inseguito. Secondo la medesima pronuncia, l’esistenza di società siffatte doveva ritenersi lecita anche alla stregua della legge 183/1976 almeno in ordine alle s.p.a., attesa l’attività di progettazione ad essa confacente ed esercitata mediante una complessa organizzazione tecnica ovvero approfonditi studi scientifici.

Tali pronunce, come già accennato, portarono all’abrogazione dell’art. 2 l. 1815/1939 per merito della legge 266/1997 (cd. legge Bersani), che provocò anche il superamento di alcuni problemi ermeneutici mai affrontati dalla Giurisprudenza, come la liceità delle società di engineering che non avessero la struttura di s.p.a. ovvero se la stessa liceità fosse consentita anche alle società tra professionisti non protetti.
Problemi, questi, nettamente superati dalla disposizione di cui all’art. 24, I comma, l. 266/1997 che recita: “L’art. 2 della legge 23 novembre 1939 n. 1815 è abrogato”, con ciò eliminando l’ostacolo inderogabile ad una corretta applicazione del principio di autonomia contrattuale e di tutela di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.
Nonostante “il lieto fine” al travagliato iter dottrinale e giurisprudenziale testé esposto, la legge Bersani ha, comunque, lasciato irrisolta la questione circa le modalità di costituzione di dette società.

Ma la liceità o meno delle società di engineering non è stata l’unica questione oggetto di dibattito giuridico. Ad alimentare i contrasti giurisprudenziali e dottrinali hanno contribuito anche i problemi in ordine alla descrizione e alla natura giuridica del contratto stipulato con una società siffatta.

Quanto alla prima questione, si deve preliminarmente evidenziare che, seppur la giurisprudenza non abbia consolidato una definizione unitaria di engineering, quella posta in essere all’inizio della presente trattazione risulta essere quella maggiormente utilizzata nell’ordinamento giuridico.
In particolare, la proto-giurisprudenza in materia, era solita conferire descrizioni generalizzanti piuttosto che sancirne gli aspetti fondanti, con ciò contribuendo a confonderne i contorni sistematici.
Ma vi è di più. La stessa giurisprudenza ha, inoltre, elaborato la distinzione, oggi pacifica, tra commercial engineering, che si ottiene qualora la società, oltre alla progettazione , si dedichi anche all’amministrazione e alla manutenzione dell’opera eseguita e consulting engineering, attività finalizzata alla mera realizzazione di analisi, progetti e disegni per installazione ed insediamenti.
Distinzione, ad avviso di un’autorevole dottrina, rispondente a finalità meramente didascaliche, attese le plurime modalità con le quali, nella prassi, si può dar vita ad un negozio di tal genere.
Più specificamente si ritengono, oggi, rientranti nel contratto di engineering quattro tipi di attività, che si identificano nelle obbligazioni della società: quella di consulenza preliminare sugli studi in ordine alla fattibilità dell’opera, alla disponibilità di risorse e degli enti disposti a collaborare; quella di progettazione; l’attività di gestione e organizzazione, detta anche “gestione di commessa”; infine, l’attività di realizzazione dell’opera con la formula “chiavi in mano” ovvero “chiavi alla porta”, vale a dire con l’impegno di consegnare al committente l’opera terminata e con l’assunzione dei rischi contrattuali.

Per mera completezza della trattazione è bene elencare anche gli obblighi nascenti in capo al committente e che si sostanziano nel mettere a disposizione il terreno sul quale verrà realizzato l’impianto o l’insediamento; nell’ acquisire le autorizzazioni amministrative necessarie; infine, nell’ effettuare il pagamento anticipato alla società di engineering nella quota del 15% al momento dell’incarico di progettazione.


La seconda problematica a cui si faceva riferimento attiene, invece, alla qualificazione del contratto di engineering.
Trattasi di una questione di non poco momento, attese le conseguenze in ordine all’adempimento contrattuale della società di engineering, la cui obbligazione si ritiene essere di mezzi o di risultato a seconda della natura giuridica che le si attribuisce. Tuttavia, la problematica non pare essere approfondita in modo adeguato.
In primis, è bene evidenziare come la giurisprudenza si sia quasi sempre orientata ad accostare il contratto di engineering al contratto di appalto di servizi (art. 1677 c.c.), con aspetti propri che lo avvicinano ora al contratto di somministrazione, ora al contratto di prestazione d’opera. E’ soprattutto in ordine a tale ultima figura negoziale che vi sono stati i maggiori dibattiti interpretativi, attesa la rilevanza del lavoro proprio e non dell’organizzazione d’impresa che ha spinto una parte minoritaria della Giurisprudenza ad abbandonare la tesi del contratto di appalto per far confluire il contratto di cui ad oggetto nello schema del contratto di opera professionale, come, invece, assume la dottrina maggioritaria.
Ma si è ampiamente evidenziato come sia il contratto di appalto che quello di prestazione di opera stentano a contenere tout court le caratteristiche del contratto di engineering. Il primo perché prevede un rapporto di collaborazione tra committente e appaltatore meno pregnante rispetto a quello che si rinviene nel contratto engineering, il secondo perché non prevede un dispiegamento di mezzi e attività tale da essere accostato all’engineering.
Quest’ assunto ha portato, in secondo luogo, ad individuare in un’altra fattispecie contrattuale, e in particolare in quella di compravendita di know-how, il tentativo di qualificazione dell’engineering. Tuttavia, anche questa tesi risulta minoritaria, atteso che il know-how mira solamente a trasferire le conoscenze di un procedimento tecnico e non anche alla messa in opera di installazioni industriali.

Infine, la tesi maggioritaria fa leva sull’atipicità del contratto oggetto di trattazione, quale risultato dell’unificazione di più contratti tipici presi nel loro contenuto globale, ma nel contempo basato su un’unica ed autonoma causa. Quest’ultima tesi, avallata sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, risponde alla stringente esigenza di adeguare gli strumenti giuridici alle aspettative di un mercato dinamico e fa leva sulle complessità attuali delle vicende economiche e delle cognizioni tecniche che richiedono un’ elevata specializzazione e competenza, indubbiamente meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322, II comma, c.c.

Dott.ssa Rita Marsico

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