Accordi economici collettivi e quantificazione dell’indennità spettante all’agente

CASSAZIONE CIVILE, Sez. II, 15 marzo 2012, n. 4149 - Pres. Schettino - Est. Migliucci - Thermocommerciale S.r.l. in liquidazione c. Immergas S.p.a.


In tema di contratto di agenzia, la mancata concessione del termine di preavviso, ovvero la concessione di un termine inferiore a quello dovuto, non travolge né rende invalido il recesso come manifestazione di volontà di porre fine al rapporto; in tale caso, infatti, la clausola nulla viene sostituita di diritto dalla norma imperativa che impone la concessione del preavviso (art. 1419 comma 2 c.c.).

Orientamenti Giurisprudenziali
Conforme: Cass., 19 febbraio 2008, n. 4056, in Dir. giur., 2009, 308 ss., con nota di L. Venditti
Difforme: Non sono stati rinvenuti precedenti in termini

Il Commento di Valerio Sangiovanni

Alla cessazione del rapporto contrattuale di agenzia, l’agente può avere - a certe condizioni - diritto di percepire dal preponente un’indennità. Attesa la confusione esistente in materia (dovuta alla presenza di una pluralità di testi normativi non sempre ben coordinati) e considerato anche che la somma da corrispondersi può essere ingente, capita con una certa frequenza che i contraenti litighino in merito sia alla spettanza sia all’ammontare dell’indennità. A questo riguardo la sentenza in commento è interessante in quanto tocca il rapporto fra la direttiva comunitaria, la legge italiana di attuazione e gli accordi economici collettivi di attuazione di secondo livello. Il principio enunciato è quello della superiorità del diritto comunitario e della legge rispetto alle previsioni degli AEC in caso di contrasto.

Introduzione

La tematica più importante fra quelle trattate nella sentenza in commento concerne il calcolo dell’ammontare dell’indennità di fine rapporto spettante, al ricorrere di certi requisiti, all’agente di commercio. La quantificazione dell’indennità risulta, nei fatti, complessa in considerazione della presenza di una pluralità di fonti in materia non sempre ben uniformate. Come è difatti noto, il contratto di agenzia è oggetto di una disciplina proveniente da ben tre diversi testi. Anzitutto l’agenzia è regolata dal diritto comunitario (la direttiva 86/653/CEE). La direttiva è stata poi attuata nei singoli ordinamenti dell’Unione Europea, compreso il nostro (artt. 1742-1753 c.c.). Alla direttiva comunitaria e alla legge nazionale si aggiungono infine gli accordi economici collettivi, che come vedremo talvolta - al posto di facilitare - finiscono con il complicare l’applicazione della legge.

I profili di complessità derivanti da questa molteplicità di fonti sono diversi.
Sotto un primo profilo, e considerato da un punto di vista per così dire “verticale”, si tratta di studiare il rapporto intercorrente fra la direttiva, la legge e l’AEC di volta in volta applicabile. Al riguardo, la gerarchia delle fonti pare univoca, dovendo prevalere la direttiva comunitaria rispetto alla legge e la legge rispetto all’AEC. Tuttavia, proprio la sentenza della Corte di cassazione in commento evidenzia la possibile difformità fra l’AEC, da un lato, e la legge nazionale e il diritto comunitario, dall’altro. In particolare in certi casi gli AEC possono produrre l’effetto di ridurre la protezione di cui dispone l’agente rispetto a quella garantita dalla legge e dalla direttiva.
In queste fattispecie deve prevalere la disciplina europea, e gli AEC vanno interpretati e applicati in modo da non danneggiare l’agente.

Sotto un secondo profilo, sia lo studio sia l’applicazione della materia dell’indennità di fine rapporto sono complicati dal fatto che non esiste un unico AEC nel nostro ordinamento, ma una pluralità di tali accordi.
La distinzione fondamentale è quella fra l’AEC del settore commercio e quello del settore industria. Da un punto di vista per così dire “orizzontale”, si tratta pertanto di comprendere di volta in volta quale sia l’AEC applicabile.
Un terzo profilo problematico deriva dalla successione nel tempo degli AEC. Nel caso affrontato dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento, ad esempio, si è discusso delle diversità di contenuto fra l’AEC del 1992 e quello del 2002. Segnatamente, nella fattispecie il rapporto era regolata dall’AEC del 1992, il quale però non prevedeva un’indennità “meritocratica” (legata all’aumento di clientela conseguito dall’agente); solo il successivo AEC del 2002 ha invece introdotto questo tipo d’indennità.
L’agente afferma di avere conseguito buoni risultati non sufficientemente premiati con il riconoscimento di un’indennità generica, che prescinde dall’aumento di clientela ottenuto. Per questa ragione cita in giudizio il preponente per vedersi riconosciuta un’integrazione dell’indennità tale da riportarla a un importo complessivamente equo, soddisfacendo così i criteri fissati dall’art. 1751 c.c., che il vecchio AEC mostrava di non rispettare in modo adeguato.

Sempre in via d’introduzione è, infine, quasi superfluo sottolineare che la materia dell’indennità di fine rapporto dell’agente è di considerevole rilevanza pratica: numerose controversie che vedono opporsi preponente e agente riguardano proprio tale indennità.
Al termine della relazione contrattuale tende a emergere una conflittualità che durante l’esecuzione del contratto è generalmente rimasta in secondo piano. In pendenza di rapporto i contraenti hanno interesse a mantenere un buon clima per il fatto che la relazione continua e non ha senso creare tensioni inutili. Quando il contratto non è più in forza, preponente e agente tendono invece ad assumere posizioni più rigide: ciascuno cerca di trarre i massimi benefici dalla cessazione della relazione contrattuale, ignorando o minimizzando le aspettative della controparte. Le discussioni sull’indennità di fine rapporto rappresentano normalmente l’argomento più critico, anche perché la somma che il preponente deve all’agente può essere talvolta d’importo considerevole.

La pluralità di indennità negli AEC
L’art. 1751 comma 1 c.c. prevede che, all’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.
Dal punto di vista della titolarità del diritto all’indennità di fine rapporto, essa spetta all’“agente”. La legge non definisce l’agente, ma dà solo la diversa nozione di contratto di agenzia: col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata (art. 1742 comma 1 c.c.). Agente è pertanto colui che assume stabilmente l’incarico di promuovere per conto del preponente, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. Non si fa alcuna distinzione in base alla natura dell’agente, che può pertanto essere sia una persona fisica sia una persona giuridica. Dal punto di vista dei presupposti oggettivi di applicazione della disposizione, si deve rilevare che l’indennità non è un diritto che spetta in ogni caso, ma che può essere riconosciuto solo in presenza di due condizioni (acquisizione di nuovi clienti ed equità) che devono sussistere in via cumulativa.

Mentre la normativa nazionale si riferisce a un’unica indennità, gli AEC riconoscono ben tre distinte indennità. È necessario soffermarsi brevemente su questa distinzione in quanto la giurisprudenza italiana degli ultimi anni (di cui la sentenza in commento costituisce un esempio) ha avuto per oggetto proprio la previsione di una pluralità d’indennità negli AEC e il fatto che il loro riconoscimento è, entro certi limiti, automatico e slegato dal merito.
Prendendo ad esempio l’AEC del commercio del 2002 di cui si è occupata la Corte di cassazione nella sentenza in commento, si può distinguere fra indennità di risoluzione del rapporto, indennità suppletiva di clientela e indennità meritocratica. Più precisamente secondo l’art. 12 AEC commercio 2002 l’indennità in caso di cessazione del rapporto è composta da tre emolumenti:

– il primo, denominato indennità di risoluzione del rapporto, viene riconosciuto all’agente anche se non ci sia stato da parte sua alcun incremento della clientela e/o del fatturato, e risponde principalmente al criterio dell’equità;

– il secondo, denominato indennità suppletiva di clientela, è riconosciuto ed erogato all’agente e risponde al principio di equità, e non necessita per la sua erogazione della sussistenza della prima condizione indicata nell’art. 1751 comma 1 c.c.;

– il terzo, denominato indennità meritocratica, risponde ai criteri indicati dall’art. 1751 c.c., relativamente alla sola parte in cui prevede come presupposto per l’erogazione l’aumento del fatturato con la clientela esistente e/o con l’acquisizione di nuovi clienti.
Dunque, delle tre indennità previste dall’AEC due sono “automatiche” (prescindono dai risultati conseguiti dall’agente), mentre solo la terza è legata al merito dell’agente.

L’art. 12 AEC specifica le condizioni per il riconoscimento dell’indennità meritocratica. È prevista la corresponsione di tale indennità nel solo caso in cui l’importo complessivo di indennità di risoluzione del rapporto e indennità suppletiva di clientela sia inferiore al valore massimo previsto dall’art. 1751 comma 3 c.c. e ricorrano le condizioni per cui l’agente al momento della cessazione del rapporto abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti. L’indennità meritocratica aggiuntiva spetta, in tal caso, in misura non superiore alla differenza fra la somma di indennità di risoluzione del rapporto e indennità suppletiva di clientela e il valore massimo previsto dall’art. 1751 comma 3 c.c.
Giova difatti ricordare che la nostra legge prevede un tetto massimo all’importo riconoscibile come indennità: esso non può superare una cifra equivalente a un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione (art. 1751 comma 3 c.c.). Questa disposizione si giustifica con la considerazione che il legislatore non vuole che l’onere per il preponente divenga eccessivo. Nell’ipotesi più favorevole per l’agente, l’indennità arriva a un’annualità delle retribuzioni.
Oltre tale limite non si è ritenuto ragionevole addossare al preponente il mantenimento dell’agente, anche nella prospettiva che questi sia in grado di trovare presto una nuova fonte di guadagno.

Il problema, testimoniato dalla sentenza in commento, è che il calcolo dell’indennità di fine rapporto effettuato sulla base della legge (e della normativa comunitaria) può risultare in contrasto con il calcolo effettuato sulla base degli accordi economici collettivi. La pronuncia in esame, sulla falsariga di una giurisprudenza che si può ormai considerare consolidata, ha ribadito come le modalità di calcolo previste dagli AEC non possano andare a detrimento dell’agente meritevole.

Cenni all’acquisizione di nuovi clienti come prima condizione per il riconoscimento dell’indennità
La prima condizione fissata dal legislatore per il riconoscimento dell’indennità di fine rapporto è che l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti. Viene in evidenza, in questo passaggio della legge, il tratto meritocratico: solo l’agente che abbia procurato nuovi clienti o che abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti può pretendere l’indennità. L’indennità ha anche una funzione di riequilibrio delle posizioni delle parti: essa
può essere riconosciuta solo se il preponente trae ancora vantaggi dagli affari con i clienti acquisiti o sviluppati dall’agente. Il legislatore è insomma preoccupato che il preponente faccia proprio il portafoglio clienti dell’agente, traendone vantaggi, senza riconoscere alcunché al suo ex collaboratore per il lavoro svolto.

L’agente deve anzitutto avere procurato nuovi clienti.
Bisogna dunque confrontare i clienti al momento dell’inizio del rapporto contrattuale e i clienti al momento finale. Se l’agente è il primo soggetto a sviluppare un determinato mercato, tutti i clienti acquisiti si devono considerare come nuovi. In aggiunta al caso dell’acquisizione di nuovi clienti, l’agente viene premiato con l’indennità di fine rapporto anche quando ha sviluppato gli affari con i clienti esistenti.
Si tratta pertanto di confrontare il fatturato realizzato all’inizio del rapporto con i clienti che erano già propri del preponente con il fatturato che viene realizzato alla fine del rapporto con i medesimi.
La legge specifica però che lo sviluppo deve essere “sensibile”. Questo significa che un piccolo aumento di fatturato non è sufficiente a giustificare il riconoscimento dell’indennità.

L'equità come seconda condizione per il riconoscimento dell'indennità
La seconda condizione fissata dal legislatore per il riconoscimento dell’indennità di fine rapporto è che il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti. Il criterio equitativo previsto da questa disposizione è indefinito.
Il criterio dell’equità viene allora concretizzato negli AEC. Abbiamo visto come l’AEC del 2002 abbia introdotto l’indennità meritocratica, diversamente dal precedente AEC del 1992. L’AEC del 1992 era strutturato in modo tale da assicurare all’agente un’indennità minima (in particolare tale accordo prevedeva che, in tutti i casi di cessazione del rapporto, venisse corrisposta all’agente un’indennità pari all’1% dell’ammontare globale delle provvigioni maturate e liquidate durante il corso del rapporto).
Tale indennità base era integrata con un’indennità aggiuntiva espressa in misura percentuale rispetto al monte provvigioni realizzato dall’agente (3% fino a un certo importo; 1% per gli importi superiori).
Con l’AEC 1992 le parti si davano reciprocamente atto che, con il meccanismo appena illustrato, intendevano soddisfare il criterio di equità di cui all’art. 1751 c.c.
Sennonché la quantificazione dell’indennità sulla base, rispettivamente, dell’AEC e del codice civile può risultare diversa.

È in questo contesto che s’inserisce un celebre caso giunto all’attenzione della Corte di giustizia delle Comunità Europee. L’agente - insoddisfatto delle modalità di calcolo fissate dall’AEC - non accettò la proposta di liquidazione dell’indennità avanzata dal preponente, agendo invece in giudizio per ottenere la condanna al pagamento di una somma superiore. La vicenda giunse infine alla Corte di cassazione, la quale ritenne necessario investire la Corte di giustizia della questione
pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653/CEE, apparendo necessario chiarire - in particolare - se l’art. 19 della medesima direttiva sia interpretabile nel senso che la normativa nazionale possa consentire che un AEC preveda, invece che un’indennità dovuta all’agente nel concorso delle condizioni previste dall’art. 17 par. 2, un’indennità che sia determinata senza alcun riferimento specifico all’incremento degli affari procurato dall’agente, sulla base di determinate percentuali dei compensi ricevuti nel corso del rapporto, sicché la stessa indennità - anche in presenza della misura massima dei presupposti cui la direttiva collega il diritto all’indennità - in molti casi sia liquidata in misura inferiore a quella massima prevista dalla direttiva.

La soluzione della Corte di giustizia è nel senso della efficacia degli AEC solo nella misura in cui i calcoli dell’indennità effettuati sulla base di essi non peggiorano la posizione dell’agente rispetto ai calcoli effettuati sulla base della legge. Gli AEC possono solo migliorare la posizione dell’agente; qualora, invece, la loro applicazione finisca col ridurre l’ammontare dell’indennità, l’agente può insistere per l’applicazione dei - seppur vaghi - canoni fissati dal codice civile. L’art. 19 della direttiva 86/653/CEE non consente una deroga a detrimento dell’agente “prima della scadenza del contratto”. Ma se si considera che gli AEC operano fin dalla conclusione del singolo contratto di agenzia, essi possono rappresentare una deroga in peggio - effettuata in via generale e in anticipo - rispetto alla disciplina legislativa.
Una deroga alle disposizioni dell’art. 17 della direttiva 86/653/CEE può essere ammessa solo se, ex ante, è escluso che essa risulterà - alla cessazione del contratto - a detrimento dell’agente. La Corte di giustizia conclude pertanto nel senso che l’art. 19 della direttiva 86/653/CEE deve essere interpretato nel senso che l’indennità di cessazione del rapporto, che risulta dall’applicazione dell’art. 17 di tale direttiva, non può essere sostituita, in applicazione di un AEC, da un’indennità determinata secondo criteri diversi da quest’ultima disposizione, a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione.

La giurisprudenza italiana dopo la sentenza della Corte di giustizia
La sentenza della Corte di giustizia, come era da aspettarsi, ha influenzato profondamente tutta la successiva giurisprudenza italiana.
La questione della rilevanza del criterio dell’equità, nel calcolo dell’indennità di fine rapporto, è stata trattata in dettaglio da una delle prime sentenze della Corte di cassazione in materia dopo l’intervento della Corte di giustizia (14). L’agente lamentava che il calcolo dell’indennità effettuato sulla base dell’AEC del 27 novembre 1992 fosse pregiudizievole.
La società preponente aveva liquidato l’indennità sulla base dei criteri previsti da tale AEC; il calcolo effettuato secondo l’art. 1751 c.c. (ovvero secondo equità) dava invece, nel caso specifico, un risultato maggiormente favorevole all’agente. Conseguentemente questi non accettò la proposta di liquidazione dell’indennità e agì in giudizio per ottenere la condanna del preponente a corrispondere una somma maggiore. La Corte di cassazione rileva che la normativa comunitaria contempla l’obbligo degli Stati membri di introdurre nei rispettivi ordinamenti giuridici un’indennità a favore di “alcuni” agenti all’atto dell’estinzione del contratto: i più “meritevoli” ossia quelli che hanno procurato nuovi clienti al preponente o hanno sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti; criterio questo che svela un’ottica marcatamente premiale. Per la quantificazione di tale indennità la normativa comunitaria non detta criteri precisi di calcolo, limitandosi a prescrivere che il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso.

La Corte di cassazione, nella sua ampia motivazione, rileva come il legislatore italiano - invece di articolare in modo più puntuale la normativa comunitaria - soprattutto individuando in concreto i criteri di calcolo dell’indennità per rispondere a quell’esigenza di equità richiesta dal legislatore comunitario, si è limitato a trasporla quasi pedissequamente. Le parti sociali hanno poi stipulato un AEC (27 novembre 1992) dandosi reciprocamente atto che con tale normativa collettiva avevano inteso soddisfare il criterio di equità di cui all’art. 1751 c.c. Se l’AEC avesse limitato l’indennità solo agli agenti che avessero procurato nuovi clienti al preponente o avessero sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti, nessun dubbio sarebbe sorto in ordine alla piena conformità al dettato dell’art. 1751 c.c. e alla normativa comunitaria. Ma l’accordo collettivo ha fatto di più: ha garantito tale indennità a tutti agli agenti. Queste modalità di concessione dell’indennità assolvono ad una funzione di protezione degli agenti - di tutti gli agenti - che, cessato il rapporto, si ritrovano, nell’immediato, senza una fonte di guadagno.
Manca però l’aspetto premiale per gli agenti che si sono particolarmente distinti: la normativa contrattuale, generalizzando la garanzia dell’indennità di fine rapporto, non valorizza i particolarmente meritevoli.

Nella decisione del 2008 la Corte di cassazione chiarisce che la sentenza della Corte di giustizia non implica l’invalidità dell’AEC per contrarietà a una disposizione imperativa e inderogabile in danno dell’agente, quale è quella posta dall’art. 1751 c.c., ma impone una verifica individualizzata e focalizzata sul caso concreto giacché la normativa collettiva non tiene conto della specifica circostanza consistente nel fatto che l’agente possa aver procurato nuovi clienti al preponente o aver sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti. Quando - e solo quando - questa circostanza di fatto ricorre nel caso concreto, si impone una verifica ulteriore della “corretta” quantificazione dell’indennità di cessazione del rapporto. Il giudice deve verificare, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto emergenti dal concreto svolgimento del rapporto di agenzia, se l’indennità di cessazione del rapporto, nella misura calcolata sulla base dei criteri previsti dalla contrattazione collettiva, possa considerarsi, o no, “equa”, nel senso di compensativa anche del particolare merito dell’agente. In definitiva la Cassazione – facendo propri gli insegnamenti della Corte di giustizia - accoglie il ricorso dell’agente e enuncia il principio di diritto secondo cui al fine della quantificazione dell’indennità di cessazione del rapporto spettante all’agente, nel regime precedente all’AEC del 26 febbraio 2002, se l’agente allega e prova le circostanze di fatto previste dall’art. 1751 comma 1 c.c. (ossia di aver procurato nuovi clienti al preponente o di aver sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti), il giudice è tenuto a verificare se - nei limiti posti dall’art. 1751 comma 3 c.c. - la quantificazione dell’indennità calcolata sulla base dei criteri posti dall’AEC del 27 novembre 1992 sia corrispondente, o no, al canone di equità prescritto dal medesimo art. 1751 comma 1 c.c., tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, ove non la ritenga tale, deve riconoscere all’agente il differenziale necessario per riportarla a equità.
Questo indirizzo giurisprudenziale è stato confermato da due successive sentenze della Corte di cassazione del 2009 e del 2010.

L’inderogabilità a svantaggio dell’agente
Per comprendere come non sia possibile che gli AEC producano l’effetto di ridurre l’indennità spettante all’agente sulla base della normativa nazionale bisogna infine considerare come la legge preveda espressamente che le disposizioni di cui all’art. 1751 c.c. siano inderogabili a svantaggio dell’agente (art. 1751 comma 6 c.c.). Il rapporto di agenzia si instaura fra due contraenti che, generalmente, non dispongono della stessa forza contrattuale: mentre il preponente ha tendenziale facilità a reperire collaboratori che si occupino della distribuzione dei suoi prodotti, per gli agenti la relazione contrattuale con il produttore può essere di centrale importanza anche al fine del proprio sostentamento. In genere pertanto, proprio alla luce della disparità di forza fra i contraenti, risulta facile per il preponente imporre clausole contrattuali che devono essere accettate in toto dall’agente. Sussiste il rischio concreto che tali pattuizioni alterino gravemente in peggio la posizione dell’agente, senza che questi abbia strumenti idonei per difendersi. Al fine di evitare un risultato del genere la legge statuisce che le disposizioni dell’art. 1751 c.c. sono inderogabili a svantaggio dell’agente.
Tale divieto di legge vale non solo per i contratti individuali conclusi dai singoli agenti, ma anche per gli AEC stipulati in sede collettiva e valevoli per interi gruppi di agenti.

La giurisprudenza italiana in materia d’inderogabilità dell’art. 1751 c.c. da parte degli AEC si colloca, ovviamente, sulla scia dell’importante sentenza della Corte di giustizia. La questione della inderogabilità è stata oggetto, ad esempio, di una sentenza della Cassazione del 2008. Questa decisione ha ribadito il principio che l’art. 1751 comma 6 c.c. si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore; la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive.

Valerio Sangiovanni

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